di Daniela Musini
Nacque forse lo stesso anno che Cristoforo Colombo approdò in America e visse all’epoca di Carlo V e Tiziano, di Cellini e del Pontormo, dell’Ariosto e del Sannazzaro, di Raffaello e Leonardo. Di Michelangelo fu Musa, amica e confidente spirituale e fu salutata da subito come la più grande poetessa del suo tempo.
Di Vittoria Colonna non conosciamo l’esatta data di nascita: di sicuro era aprile, ma il giorno è imprecisato, così come l’anno, che alcuni studiosi individuano nel 1492 e altri nel 1490.
Si sa però con certezza il luogo di nascita: il castello di Marino, sui colli Albani di Roma.
I suoi genitori appartenevano a due tra le famiglie più prestigiose del Rinascimento: il padre Fabrizio era un Colonna, principe di Tagliacozzo e conestabile del regno di Napoli, mentre la madre Agnese era una Montefeltro, figlia dell’illustre Federico duca di Urbino e sorella di Guidobaldo.
Vittoria fu una delle figure più famose dei Colonna, una delle più potenti ed agguerrite casate di Roma, da sempre legata al Papato con rapporti tumultuosi, ora combattendolo ora spalleggiandolo, che poteva vantare tra i componenti decine di Cardinali e perfino il Papa Martino V, ma anche personaggi illustri come fu lei e condottieri impavidi come suo padre Fabrizio.
Ritratto di Vittoria Colonna realizzato da Michelangelo
I Colonna in quegli anni di fine Quattrocento erano alleati con un’altra grande famiglia, i d’Avalos, di discendenza ispano-visigotica che avevano molti possedimenti nel regno di Napoli e feudi negli Abruzzi, e per cementare l’intesa fra le famiglie, nel 1495 Fabrizio Colonna e Alfonso II d’Avalos si accordarono per far sposare in futuro i loro figli, Vittoria e Francesco Fernando (detto Ferrante), marchese di Pescara, che al tempo del patto erano ancora bambini.
E il 27 dicembre 1509, nel castello aragonese di Ischia, Vittoria andò sposa a Ferrante con un matrimonio sontuosissimo, vestita con un magnificente abito di broccato bianco con ramificazioni in filo d’oro e un mantello di raso azzurro; lui, imponente ed elegante, le dona come regalo di nozze una croce di diamanti e dodici bracciali d’oro.
Gli sposi trascorsero i primi anni di matrimonio sull’isola, ma poiché Ferrante era spesso impegnato in contese e battaglie, Vittoria rimaneva per lunghi periodi da sola, alternando i suoi solitari soggiorni tra l’isola e il palazzo nobiliare di via dei Tribunali a Napoli.
Era innamoratissima di suo marito, ma questi, di temperamento focoso e gagliardo, amato dai soldati e desiderato dalle donne, pur nutrendo per lei ammirazione e affetto, non le lesinò tradimenti e umiliazioni fin dai primi mesi di matrimonio.
Nella Foto Ferrante d’Avalos
Lei, seppur con l’orgoglio ferito, lo perdona, e lo farà molte volte, e quando nel giorno di Pasqua del 1512 durante battaglia di Ravenna, Ferrante, che combatteva a fianco della Spagna contro i Francesi, fu imprigionato e deportato in Francia, lei gli dedica dei versi impetuosi e presaghi di future sventure (come poi sarà): «(…) il mar pareva inchiostro/piangean intorno a quello i dei marini,/sentend’ad Ischia dir: “oggi Vittoria,/sei stata di disgrazia a li confini».
Tornò Ferrante, ma alla moglie devota riservava ben pochi palpiti, e questa tiepidezza la rendeva malinconica e inquieta. La scoperta poi della propria sterilità la fece precipitare nello sconforto più profondo e le farà prendere la decisione, di concerto con il marito, di designare loro erede il cugino Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto.
Non era propriamente bella, Vittoria, seppure Michelangelo la laudasse con parole lusingatrici, la tua beltà non è cosa mortale: appariva inoltre troppo austera nei modi e pudica nella femminilità; molti, a iniziare da papa Clemente VII, espressero per lei una formula connotativa, mulierum superegressa sexum (oltrepassando il sesso femminile) che mirava a sottolineare certe caratteristiche temperamentali “virili” quali l’indomita energia e l’assoluta mancanza di civetteria.
Forse per questo Ferrante, che prediligeva donne dall’accentuata sensualità, la trascurava e appena poteva fuggiva dal talamo nuziale, ma per quanto poco attento al suo bisogno d’amore e di vicinanza, Vittoria lo amava e gli sarà devota per tutta la vita.
Nella battaglia di Pavia del 1525 combattuta tra l’esercito francese comandato personalmente da Francesco I e l’armata imperiale di Carlo V e i suoi alleati, Francesco Ferrante che era comandante in campo, fu ferito gravemente e la volle accanto a sé.
Alla notizia recatale da un messaggero Vittoria partì immediatamente per raggiungerlo, ma strada facendo le giunse la drammatica notizia della morte del marito ad appena trentacinque anni, e lo shock per lei fu tale che perse i sensi e cadde da cavallo. Un dolore straziante si impadronì del suo animo e nulla, neppure la Fede, di cui era pervasa, sembrava darle conforto, tanto da meditare il suicidio.
Dal castello aragonese in cui si rinchiuse sopraffatta dallo sgomento, lei, vedova di trentatré anni, osservava dalla finestra il paesaggio ischitano, splendido e tumultuoso, con il mare che s’infrangeva iroso e schiumante contro gli scogli e così la sua la sua esistenza le appariva: una nave senza nocchiero in balia delle onde procellose.
Decise di prendere i voti, di rinunciare alla vita pubblica, ma papa Clemente VII e soprattutto suo fratello Ascanio, che era conscio di come la sua caratura di intellettuale e la sua statura morale fossero utili alla famiglia Colonna, glielo impedirono.
Lasciò momentaneamente l’isola e partì per Roma dove, bisognosa di conforto nella Fede, si ritirò per un periodo nel convento delle Clarisse annesso alla Chiesa di San Silvestro, dedicandosi sempre più a coltivare la spiritualità e la poesia.
È da qui che parte il fecondo periodo creativo in cui compone le sue celebrate “Rime” che comprendevano 117 sonetti per la morte di suo marito e componimenti di carattere ascetico-morale.
Ma sono quelle amorose le liriche più appassionate e vibranti, quelle in cui si percepisce la malinconia di una serenità perduta nell’accorato grido di chi torna nei luoghi che l’hanno vista felice accanto al suo sposo: non solo Ischia e Napoli, ma anche Pescara, città che amò così tanto che nella sua corrispondenza, ennesimo esempio di devozione al marito, si firmò sempre Vittoria Colonna, Marchesa di Pescara.
Furono tanti gli artisti del suo tempo che l’adularono e la omaggiarono: il poeta Bernardo Tasso (padre di Torquato) che la considerava “eccelsa rimatrice”, Baldassarre Castiglione, il cardinale-poeta Pietro Bembo, con il quale intessé una fitta corrispondenza, e che le dedicò un verso che giocava con il suo cognome, alta colonna e ferma a le tempeste, fino a Ludovico Ariosto che le dedicò alcune stanze del canto XXXVII del suo poema “L’Orlando furioso”: Vittoria è il nome; e ben conviensi a nata/fra le vittorie, ed a chi, o vada o stanzi/ di trofei sempre e di trionfi ornata/la vittoria abbia seco, o dietro o innanzi.
E anche se le sue “Rime” sono innervate e spesso appesantite da meditazioni religiose e severe riflessioni morali, anche se la sua fu una poesia più intellettuale che lirica, più concettuale che ispirata, tuttavia sono permeate da un solenne e sublime respiro poetico che sedurrà anche Leopardi.
Intanto la sua affannosa ricerca di serenità dopo la tragica morte del marito la fece approdare a Viterbo, dove si ritirò nel monastero di Santa Costanza per tre anni e dove venne in contatto con il cardinale legato Reginald Pole che, fiero oppositore dello scisma di Enrico VIII, si era trasferito in Italia dall’Inghilterra.
Il Pole, che divenne la sua guida spirituale, apparteneva al circolo valdesiano fondato da Juan de Valdès, della cui dottrina Vittoria Colonna fu simpatizzante senza però mai mettere in discussione la comunione con la Chiesa di Roma: non si allontanerà mai quindi dalla religione cattolica, anche se con il tempo la sua fede divenne più intima e personale e sempre più lontana dai rituali del cattolicesimo.
Intorno all’anno 1534 incontra colui che avrà una profonda incidenza sulla sua vita e nella sua anima: Michelangelo Buonarroti del quale diviene Musa, amica e confidente.
Si incontrano che lui ha quasi sessant’anni ed è stanco, provato, sfiduciato, inquieto. Lei ne ha poco più di quaranta e con il suo affetto sincero e l’empatia spirituale diviene per lui un faro di luce, un approdo sicuro, un punto fermo nella sua esistenza.
Lo spirito irrequieto del sommo Artista trovava nella serenità d’animo della marchesa di Pescara modo di acquietare i tumulti e di placare i demoni che si agitavano nel cuore e nella mente e a farlo uscire dalla scorbutica riservatezza.
Vittoria lo appellerà sempre Magnifico in quella corrispondenza che sarà sempre non di amorosi, ma di eccelsi sensi, data la nobiltà d’animo e il profondo sentire di queste due creature legate da affetto profondo e dall’amore per la Poesia.
A lei, Musa purificatrice e strumento di elevazione spirituale e morale, Michelangelo dedicò dei versi intensi e partecipati e vide in lei la donna com’era nella concezione stilnovistica o petrarchesca: una creatura alta che eleva l’animo umano e lo perfeziona, che riverbera la grazia, la bellezza, la poesia del mondo.
Per lei disegnò un “Crocifisso”, una “Samaritana al pozzo”, una “Deposizione” con Gesù deposto dalla croce da due angeli di fronte alla Vergine con le braccia elevate al cielo.
All’invio del Crocifisso, Vittoria gli scrive, appellandolo unico maestro e mio singularissimo amico: «Io l’ho ben visto al lume et col vetro et col specchio, et non vidi mai la più finita cosa.»
Michelangelo non le fece dono soltanto di disegni e crocifissi, ma anche di un disegno con le sue fattezze di cui Thomas Mann sottolineerà rapito «quegli occhi così pieni d’anima, di spiritualità, e quella bocca vigorosa, d’una così sensuale bellezza.»
Vittoria Colonna fu eternata in molti dipinti e molti critici d’arte hanno ravvisato le sue sembianze nella Madonna del “Giudizio Universale” di Michelangelo, nella musa Calliope del “Parnaso” di Raffaello o nella donna delle “Nozze di Cana” del Veronese.
La più grande poetessa del Rinascimento italiano muore il 25 febbraio 1547 vegliata da Michelangelo che non osa, neppure appena morta, sfiorarle il viso con un bacio e si limita a poggiare le sue labbra sul dorso della sua fredda mano.
Nella foto Michelangelo accanto al corpo di Vittoria Colonna opera di Francesco Jacovacci
«Per la costei morte più volte se ne stette sbigottito e come insensato» riportò Ascanio Condivi, biografo di Michelangelo che, disperato e affranto, compose il “Lamento per la morte di Donna Vittoria Colonna Marchesa di Pescara” e in una lettera scrisse: «La morte mi ha tolto un grande amico [sic]», ma la morte non riuscirà mai ad estirparla dal suo cuore dove la custodirà fino alla fine dei suoi giorni.