Quando nacque, il 22 giugno 1932, i suoi genitori, la bellissima Eva Karl, un’ebrea tedesca di origine russa, e Kalil Bakhtiari, principe iraniano appartenente a una delle più potenti tribù nomadi di Persia e ambasciatore d’Iran nella Repubblica Federale Tedesca, di fronte agli occhi verdi della piccola luminosi come stelle, decisero di chiamarla Soraya, che in persiano significa Orsa Maggiore.
Vive la sua gioventù in Europa, studia nei collegi esclusivi di Losanna, frequenta Parigi e sogna Hollywood anche se è consapevole che mai suo padre avrebbe accettato una figlia attrice.
Sono molto legati, lei è il suo papà: vanno insieme a caccia di gazzelle, fanno escursioni a cavallo nel deserto, affrontano sabbie e venti impetuosi.
Soraya intanto diventa una ragazza bellissima dal fascino misterioso e orientaleggiante e quei suoi occhi verdi e gli zigomi aristocratici la fanno assomigliare sempre di più ad Ava Gardner, attrice celebre ed irrequieta del tempo.
Ad un ricevimento all’ambasciata iraniana a Londra conosce la principessa Shams, la sorella maggiore dello Scià di Persia Mohammed Rehza Pahlavi, e ne diventa amica.
Ed è lei, “la pantera nera”, come la chiamano a corte, a combinare l’incontro fra suo fratello e quella ragazza dagli occhi di smeraldo.
Rehza aveva allora trentuno anni ed aveva dovuto ripudiare la prima moglie, la bellissima Fawzia, sorella di Faruk Re d’Egitto, perché non gli aveva dato l’agognato figlio maschio ed erede al trono; avevano generato Shanaz che però essendo femmina non sarebbe mai potuta assurgere al magnificente Trono del Pavone.
Reza aveva visto Soraya in fotografia e ne era rimasto incantato.
“Sarà lei la mia prossima sposa”, aveva sentenziato, pur sapendo che lei apparteneva alla potente tribù degli Esfandiary Bakhtiari che per diciassette generazioni erano stati padroni della Persia prima e dei pozzi di petrolio dell’Iran poi, e i cui ultimi discendenti erano stati perseguitati e imprigionati proprio da suo padre, il temibile Reza (anche lui) Pahlavi.
A Soraya è la stessa Shams a comunicare che suo fratello l’ha scelta come sposa.
È lusingata e smarrita, euforica e spaventata: diventare moglie del “re dei re” (questo significa Shah), ovvero uno degli uomini più ricchi e potenti della terra, è un privilegio, un dono del destino, ma lei ha solo diciotto anni e diventare Imperatrice di venti milioni di persone la inebria e nel contempo l’atterrisce.
Sa che dovrà abbandonare i suoi sogni di diventare attrice, la sua amata Europa, sa che dovrà trasformarsi in altro da sé e ha paura. Ma al suo fianco c’è la sua futura cognata, la pitonesca e imperiosa Shams che non l’abbandona mai, la guida (e la manipola), le insegna come inchinarsi, come comportarsi, le indica il guardaroba più adatto al suo rango (Dior e Balmain in primis), persino il modo migliore per conquistare la simpatia dell’Imperatrice madre, l’algida (e perfida) Taj ol Molouk (che non l’amerà mai).
Con questo matrimonio le due potenti famiglie dei Pahlavi e dei Bakhtiari avrebbero siglato finalmente un patto di pace oltre che di parentela e per questo lo Scià decise che la cerimonia sarebbe stata sontuosa e abbagliante.
E lo fu, ah se lo fu, quel 12 Febbraio 1951!
1600 invitati da tutto il mondo si diedero convegno al Palazzo Golestan di Teheran: marmi lucenti, specchi grandiosi, una tonnellata di orchidee e lillà dal profumo inebriante arrivate direttamente dall’Olanda, una profusione magnificente di servizi di piatti e posate d’oro massiccio, enormi candelabri d’argento a soffondere luminescenze perlacee, aromi orientali diffusi da centinaia di incensieri, uno splendore abbagliante su cui però gravavano funesti presagi.
In realtà il matrimonio si sarebbe dovuto svolgere due mesi prima, ma una improvvida salmonellosi contratta da Soraya (qualcuno parlò di un decotto avvelenato propinatole dalla famigerata madre dello Scià) aveva fatto slittare la data.
Reza, innamorato e premuroso, l’aveva visitata ogni giorno e ogni giorno le aveva appoggiato sul cuscino un dono: dolcetti, fiori, gioielli.
Loro si amano tantissimo e fremono di ansia e di desiderio.
E finalmente arriva il giorno delle nozze.
Lui, altero e fascinoso nella sua alta uniforme pavesata di medaglie e decorazioni, lei un incanto con quell’abito sfarzoso oltre ogni immaginazione creato da Dior (un tripudio fastoso di balze, tulle, diamanti cuciti sulla stoffa e uno strascico lungo e ingombrante), una preziosissima tiara di diamanti in testa, al collo e alle orecchie smeraldi enormi in onore dei suoi occhi verdi, all’anulare un brillante da 22 carati.
Lei appare pallida, tesa, con un sorriso tirato, il peso dell’abito (venti chili) la fa incedere a fatica.
Un brivido corre sulla schiena degli sposi (e degli invitati persiani) quando vedono la madre dello Scià presiedere al rito propiziatorio di gettare sulla testa degli sposi monetine e coriandoli (così come noi occidentali lanciamo confetti): la tradizione impone infatti che affinché il matrimonio sia felice e prolifico, a sovrintendere a quel gesto bene augurante sia una donna di buon carattere e felice, come non è Tay ol Molouk, la madre dello sposo, donna perfida, frustrata, malevola e per di più abbandonata dal marito. Un brutto presagio, pensano tutti.
L’assedio dei fotografi, la ressa, il profumo stordente dei fiori, i postumi della malattia, il peso insopportabile dell’abito da sposa: Soraya sviene tre volte, sotto lo sguardo preoccupato dello Scià e quello maligno della suocera.
Reza ordina ad una damigella di tagliare di netto lo strascico: metri e metri di frusciante splendore vengono accartocciati e nascosti in una stanza.
È un matrimonio d’amore, il loro, una passione che arde: entrambi desiderano al più presto un figlio e sperano sia maschio, per dare continuità alla stirpe dei Pahlevi, ma trascorrono due anni, e nonostante notti appassionate e la perfetta salute degli sposi, l’erede non arriva.
L’Imperatrice madre non perde occasione per farglielo notare, anche in pubblico. Soraya immalinconisce, si chiude in sé, rifiuta il cibo, dimagrisce, i suoi occhi di smeraldo perdono la luce.
Lo Scià, che l’ama perdutamente, per distrarla e per rafforzare l’immagine della monarchia, progetta una grandiosa cerimonia di incoronazione che rievochi i fasti dell’antica Persia, la Persia di Ciro il Grande e di Serse in cui far sfoggiare a Soraya gioielli di incomparabile splendore e di antica tradizione: diademi, tiare, bracciali, uno scettro con incastonati rubini, smeraldi e zaffiri enormi e lucenti e al dito il Darya-i-Noor il celeberrimo diamante rosa di 182 carati proveniente dalle miniere indiane di Golconda.
Ma la situazione economica in Iran non era florida: le ricchezze, il lusso e i fasti del palazzo imperiale cozzavano con la miseria di milioni di iraniani e quei gioielli saranno riposti.
Nell’agosto 1953 il primo ministro Mohammad Mossadeq opera una sorta di colpo di Stato, esautorando lo Scià e nazionalizzando il petrolio persiano: a Teheran scoppiano disordini e la coppia imperiale fugge nottetempo e approda a Roma.
Sono scappati di corsa senza bagagli: Soraya ha solo l’abito che aveva indosso al momento della fuga, ma lo stilista Schubert (napoletano nonostante il nome), una delle icone della Moda degli anni Cinquanta, le crea in tre giorni un guardaroba di trenta abiti da favola.
Sarà il suo sarto preferito anche in seguito e spesso apparirà sulle copertine delle riviste con i suoi fiabeschi abiti da sera, un tripudio di tulle, tessuti lussuosi e glamour holliwoodiano.
Il ministro Mossadeq viene arrestato dopo pochi giorni e la coppia imperiale a fine agosto può tornare in Iran, acclamata dalla folla.
Politicamente il peggio era passato, ma per lei il peggio doveva ancora arrivare.
Soraya non riesce a rimanere incinta e si dispera insieme al suo innamoratissimo Reza. Vengono consultati i luminari di tutto il mondo, e ogni giorno i sudditi depongono al cancello del palazzo imperiale amuleti, unguenti magici, versetti del Corano.
Tutto inutile. I consiglieri, i mullah musulmani e la spietata Imperatrice madre, iniziano a fare pressioni: deve ripudiare la sterile moglie.
Reza è innamorato e disperato, Soraya umiliata e senza speranza. Ma sono trascorsi ormai sette anni infecondi e lui deve decidere il da farsi: il trono del Pavone, la dinastia dei Pahlevi, il regno dell’antica Persia anelano alla continuità dinastica e lui non può sottrarsi ai suoi doveri di monarca.
Lo Scià, onde evitare il ripudio, designa quale successore suo fratello minore Alì, ma questi disgraziatamente perde la vita in un incidente aereo.
Affranto e senza guardarla negli occhi, propone a Soraya l’ultima chance: il “sighé”, un matrimonio provvisorio con una donna con cui concepire l’erede maschio per poi ripudiarla immediatamente dopo.
Lei non può accettare questa umiliazione: la sua dignità di donna, l’amore che prova nei confronti di suo marito, la gelosia che la artiglia implacabile, le impongono di non accettare.
Il 14 marzo 1958, con la voce incrinata dal pianto e gli occhi arrossati per le notti insonni, Reza Pahlavi, il Re dei Re, annuncia alla radio il ripudio della sua amata consorte Soraya Esfandiary Bakhtiari. Tutto un popolo piange con loro. La fiaba da mille e una notte stavolta non ha un lieto fine.
Lui sposerà l’affascinante Farah Diba che gli darà il tanto atteso erede al trono, Ciro, e altri tre figli, ma il destino si accanisce contro di lui: la famiglia imperiale sarà travolta dalla Rivoluzione di Komehini del 1979 e dovrà lasciare l’Iran per sempre e due dei loro figli moriranno anni dopo in circostanze drammatiche.
Soraya, in quell’aprile del 1953, parte con la morte nel cuore e i suoi splendidi occhi illuciditi dalle lacrime.
Lo Scià ha fatto riempire sette vagoni ferroviari di argenti, ori, abiti da sogno, gioielli, e in più le assegna un vitalizio da favola e il titolo di principessa imperiale.
Avrà ricchezza, celebrità, copertine, feste nelle più lussuose località del pianeta, ma i suoi occhi, stelle un tempo luminose, resteranno per sempre tristi.
Soraya diventerà la regina del jet-set, vivrà flirts e passioni fugaci e approda finalmente al cinema, coronando il suo sogno di diventare attrice.
È il 1965: recita nel film a episodi “I tre volti” accanto a Alberto Sordi, ma la critica la stronca.
Lei ne è amareggiata, ma sul set ha conosciuto il regista Franco Indovina, che le restituisce entusiasmo per la vita e i brividi di un’altra passione d’amore.
La storia si presenta da subito complicata: lui è sposato, ha due bambini piccoli e l’opinione pubblica si scaglia contro di lei, i fotografi assediano la coppia che vive questo amore con trasporto e dilanianti sensi di colpa.
Poi la tragedia: il 5 maggio 1972 l’aereo sul quale viaggia il regista insieme ad altre 114 persone, si schianta a Punta Raisi, vicino Palermo. Nessun superstite.
Il dolore schiantò Soraya e da quel momento alcol e barbiturici scandiranno ogni momento della sua giornata.
Una fiaba tragica, la sua vita.
Il 25 ottobre 2001 la luce verde dei suoi occhi si spense per sempre. La sua anima lo aveva fatto molto tempo prima.