Rubrica coridandoli. Zelda e Scott Fitzgerald. Una passione dannata a tempo di charleston

Categories: News

Zelda Sayre nasce a Montgomery, in Alabama, il 24 Luglio del 1900 figlia di un avvocato e di una madre brillante ed estrosa che le dà il nome di una regina degli zingari.
Fin da ragazzina si mostra per quel che sarà tutta la vita: scatenata, stuzzicante, ribelle, egocentrica, umorale, sensualissima.
Era la più desiderata ragazza della città: capelli chiari tagliati “alla maschietta”, occhi azzurri e ribaldi e quell’aria spregiudicata e divertita che avevano le cosiddette flappers, le ragazze dalle gonne corte e dalla mentalità emancipata che si muovevano disinibite nell’età del charleston.
È poliedrica: ha talento nella scrittura, nella pittura, nella danza ed è una sirena in acqua, una formidabile nuotatrice.

Lei e Scott Fitzgerald s’incontrano al Country Club di Montgomery in una calda notte d’estate del 1918: lui ha 22 anni ed è sottotenente dell’esercito americano, lei 18.
Lui la invita a ballare e comincia così, con un charleston, l’inizio di una delle storie d’amore più controverse, affascinanti e deliranti di tutti i tempi.
Si sposano il 3 Aprile 1920 nella cattedrale di St. Patrick a New York: cerimonia semplice, con soltanto sei amici e nessun pranzo di nozze.
Insieme accesero un’epoca già incandescente: fu subito swing, trasgressione, spregiudicatezza, esibizionismo al limite del buon gusto, con lui che si accende le sigarette con biglietti da 5 dollari, con lei accanto che ride, beve e mostra le (favolose) gambe da vestiti troppo corti.
Si mangiano la notte scorrazzando per New York su automobili decappottabili e suonando il clacson all’impazzata, facendo ammattire i tassisti perché pretendono di viaggiare lui sul tettuccio e lei sul cofano, facendo l’alba in locali fumosi a ballare, ubriachi e felici.
È un’epoca sincopata, quella, in cui ci si bruciava in incendi di passione e autodistruzione.
Diventano un’icona della lost generation, termine che Hemingway eternò nel suo romanzo “Fiesta” e che annoverava gente come Steinbeck, Dos Passos, Eliot, Henry Miller, Ezra Pound e, naturalmente, lo stesso Scott, generazione perduta e protagonista di quegli anni folli e scapestrati.

Nell’ottobre 1921 nasce la loro unica figlia, Frances “Scottie” che verrà affidata ad una balia perché i suoi genitori non hanno tempo per fare i genitori: troppo impegnati a divertirsi, a tracannare champagne e notti ruggenti, ad illuminare i party newyorchesi con la loro presenza scintillante e ingombrante, a invitare centinaia di amici nella loro casa a Wilmington, nel Delaware, in «quelle loro deliranti feste», dove, come raccontava il romanziere Dos Passos, venivano serviti solo alcolici e neppure un panino.
Una vita dissipante e disordinata, eccentrica ed eccitante, come quella che lui racconta in “Belli e dannati”, dato alle stampe nel 1922, manifesto di un’epoca irripetibile.
Quando si recano in Europa, nel 1924 (Parigi, Costa Azzurra, Italia, Londra le loro mete) si portano appresso la loro bimbetta, l’Enciclopedia Britannica, 30 bauli ma anche il loro carico di allegria, trasgressione e sotterranea infelicità.

Affittano una grande villa sopra St Raphael, in Provenza, assoldano cuoca e camerieri, comprano auto e gioielli.
Qui Scott termina il suo capolavoro “Il grande Gatsby” e qui Zelda fa la vezzosa con un affascinante ufficiale dell’Aeronautica Edouard Jozan.
«Sono innamorata di lui e voglio il divorzio», sentenzia, ma è alticcia e Scott, infuriato, la chiude a chiave nella camera da letto.
Hemingway (conosciuto da poco a Parigi ma già divenuto il suo amico/nemico per la pelle) cerca di rabbonirlo. Scott si calma, ma Zelda tenta il suicidio e la salvano per miracolo.

Il successo de “Il grande Gatsby” è immenso. Scott è finalmente appagato, soddisfatto, felice.
Zelda no. Zelda ha intrapreso una strada di non ritorno. Appare strana, reagisce in modo bizzarro a qualsiasi stimolo emotivo, a volte chiusa in un ostinato e indisponente mutismo e poi di colpo una chiassosa e imbarazzante esplosività. Come quella volta che in un locale si mise al centro della pista e con la gonna alzata fino alla pancia, ballò in modo sguaiato e travolgente.
Scott era sconcertato, offeso, arrabbiato. Non aveva capito che per sua moglie era iniziata la discesa agli Inferi.
L’alcol consumato senza ritegno, l’irrequietezza congenita, le 40 sigarette al giorno, l’eccentricità come paradigma esistenziale, l’esibizionismo come modus operandi, la frustrazione di essere sempre considerata un satellite che brilla della luce riflessa di quel marito celebre e celebrato, l’avevano condotta ad una depressione immedicabile da cui non sarebbe mai più uscita.

E allora i ricoveri in ospedali psichiatrici nei momenti di crisi, i tentativi di suicidio, i ritorni a casa avveleniti da rancori mai sopiti, silenzi raggelanti, battibecchi miserevoli davanti alla loro bambina.
Zelda, nei momenti di lucidità mentale, decide di riprendere in mano la propria vita e di riprendere un’antica passione: la danza.
Si sceglie una maestra prestigiosa: Ljubov Jegorova, Direttrice del Diaghilev Ballet a Parigi.
Maestra e allieva si capiscono al volo, si piacciono, Molto. Troppo.
Scott ne è geloso e le liti si fanno ancora più ispide.
Si separarono e per entrambi fu la fine: lui ormai alcolizzato, lei sempre più preda dei demoni della sua mente.
Zelda, stanca, depressa, triste, finisce in varie cliniche psichiatriche a Parigi e a Ginevra per tentare di curare quella sua povera anima ammaccata e viene sottoposta a dolorose ed umilianti sedute di elettroshock.
I Roaring Twenties erano volati via e con loro anche la spavalda allegria e la disinibita incoscienza dei Fitzgerald.

Agli inizi degli anni Trenta la situazione psicologica e neurologica di Zelda peggiora, ma lei rifiuta le cure mediche; Scott non è più lo scrittore osannato che è stato. I lettori dimenticano presto e lui da tempo ormai non pubblica più.
Il suo romanzo “Tenera è la notte” fatica a procedere: sono sei anni che ci lavora e i suoi racconti, alcuni dei quali gioielli luminosissimi, non sono più richiesti dai giornali.
È in cattive acque, Scott, e in più sempre ubriaco e ringhioso contro il mondo.
Il 15 Settembre 1931 Zelda viene dimessa dall’ospedale psichiatrico in cui era rinchiusa: è stranita, depressa, triste da far pena.
Scott decide di aiutarla: insieme partono per Parigi, poi fanno ritorno negli States, a Montgomery, presso la famiglia di lei che così può stare vicina a questa creatura fragile e dilaniata.

Ma lui è scontento, irascibile, passa le giornate al pub a ubriacarsi e il suo alcolismo vanificherà la grande occasione che il nuovo Cinema sonoro, bisognoso di sceneggiatori e dialoghisti, gli offre: sempre ubriaco com’era, viene licenziato dalla Metro-Goldwin Meyer dopo soli sei mesi.
“Tenera è la notte” esce finalmente nel 1934, ma la tematica scabrosa (l’incesto che porta alla follia) fa storcere il naso a molti critici e lettori.
Lui diviene sempre più cupo e intrattabile e va a vivere a New York.
Una mattina si siede davanti al camino a lavorare al suo romanzo “Gli ultimi fuochi”; dopo aver ultimato il sesto capitolo si alza. Improvviso e lancinante, un dolore al petto.
Si aggrappa alla mensola del caminetto. Cade a terra senza un grido.
Muore così, a 44 anni, Francis Scott Fitzgerald, uno dei più grandi scrittori americani di tutti i tempi.
Sulla lapide viene incisa la frase ultima de Il grande Gatsby, uno dei finali più belli di sempre: «Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».

Zelda alla notizia piange ininterrottamente per tre giorni, ma sempre più devastata dalla depressione com’è, non può partecipare ai funerali, né andare a trovare la sua tomba.
Sta troppo male. Ormai è ingrassata e invecchiata, spesso fuori controllo, e per lei altro non c’è che quel disperato errabondare tra le cliniche psichiatriche.
E in una di queste trova la morte, tragica e orribile: arsa viva il 10 marzo 1948 in un incendio del dormitorio dell’ospedale di Ashville dov’era ricoverata.
Il suo corpo, o quel che ne resta, verrà sepolto accanto al suo Scott nel cimitero di Rockville.
In una lettera lei gli aveva profeticamente scritto: «Niente avrebbe potuto sopravvivere a una vita come la nostra».
Loro, belli e dannati, sarebbero però vissuti in eterno.