Il 25 luglio 1755, nel giorno del suo onomastico, Giacomo Casanova viene arrestato e tradotto nel lugubre carcere dei Piombi a Venezia.
L’accusa non è specifica, né circostanziata: si parla evasivamente di blasfemia e di detenzione di libri proibiti, ma il sospetto che dietro ci sia una vendetta di uno degli inquisitori, Antonio Condulmer, a cui Giacomo aveva rubato la focosa amante, non è peregrino.
A quel tempo Casanova aveva esattamente 30 anni, essendo nato il 2 Aprile 1725, ed era già famoso in tutta Europa. Gaudente e cosmopolita libertino, alto m 1,90, fisico possente, sguardo imperioso e naso aquilino, fu straordinario protagonista del suo tempo fino a diventarne figura rappresentativa del Settecento al pari di Mozart.
Casanova ne interpretò l’aspetto edonista e spregiudicato, epicureo e narcisista, essendo lui esattamente così e in più scintillante teatrante e bugiardo inveterato, facondo conversatore dalla Cultura enciclopedica (conosceva l'”Orlando furioso” dell’Ariosto a menadito) e scrittore mirabile (le sue Mémoires, scritte in Francese, costituiscono un capolavoro assoluto).
Anche nella concezione dell’Amore Giacomo fu davvero rappresentativo della sua epoca: legami frivoli e incipriati, avventure galanti ed eroticissime, pur senza la maniaca sconcezza del Marchese de Sade e senza la vitrea lussuria che Choderlos de Laclos descrisse nelle torbide “Liasons dangereuses”, suoi coetanei.
Insomma Giacomo ama peccare e tanto, ma lo fa con allegria, leggerezza e spregiudicatezza (persino con una bellissima monaca del Convento di Santa Maria degli Angeli a Murano).
Forse anche troppo, se la sua condotta viene ritenuta eccessiva persino nella gaudente, scostumata e vitalissima Venezia del tempo.
Ma torniamo a quel 25 luglio 1755. Casanova guarda con orrore la cella: piccola, angusta, con il soffitto troppo basso per la sua gigantesca statura, rovente quanto a temperatura (così come sarebbe stata gelida in Inverno) e popolata di ospiti non graditi, ovvero pulci e topi.
Decide all’istante che evaderà. Al più presto.
In una delle ore d’aria si procura, non si sa come, un ferro acuminato con cui comincia a praticare un foro nel legno del pavimento, ma viene scoperto e costretto a traslocare.
È la sua fortuna perché accanto alla nuova cella c’è quella di Padre Marino Balbi, un frate gaudente colà rinchiuso per aver ingravidato tre donne; fanno amicizia e Casanova gli confessa la sua intenzione di evadere, progetto che il frate apprezza e condivide.
Entrambi convengono che l’unico modo di fuggire sia dai tetti e per far ciò bisogna praticare un foro sul soffitto di legno delle rispettive celle.
Visto però che Giacomo, considerato il precedente tentativo, è un “sorvegliato speciale”, si decide che ad operare sarebbe stato il frate.
Ma questi era sprovvisto di qualsiasi mezzo. Niente paura: Casanova s’inventa uno stratagemma geniale per passargli il famoso ferro acuminato che lui stesso aveva utilizzato per il precedente tentativo.
Non avendo possibilità alcuna di poterlo incontrare neppure nell’ora d’aria, il libertino prega un carceriere di far pervenire al frate la propria Bibbia, usata da lui non certo per nutrire la propria anima (era un irriducibile ateo) ma come custodia del suddetto ferro.
Per non destar sospetti e per impedire al secondino di ispezionare il libro, Casanova, che, dato il suo status sociale, ha il privilegio di prepararsi i pasti in cella, cucina un piatto di spaghetti per il frate e lo appoggia a mo’ di vassoio proprio sulla Bibbia.
Poi chiama il carceriere pregandolo di consegnare il tutto al frate.
Il carceriere avrebbe dovuto ispezionare spaghetti e Bibbia, ma il piatto è così stracolmo e così grondante di burro (fatto apposta, ovviamente) che quello, imprecando contro quegli spaghetti unti e bisunti che gli stavano sporcando mani e divisa, lo consegna in tutta fretta al detenuto. Giacomo sorride sotto i baffi.
Padre Balbi degusta e poi, nel silenzio della sera, comincia a lavorare al soffitto. Contemporaneamente, su suggerimento del diabolico Casanova, tappezza l’intera cella di santini, come fosse preda di un delirio mistico, in realtà per coprire la crepa del soffitto che di giorno in giorno diventa più visibile.
In capo a una decina di notti insonni riesce nell’impresa di scavare il buco sia nella sua cella che in quella attigua e i due compari finalmente sono pronti per la grande fuga.
Affidandosi alla cabala di cui era esperto e ad un verso dell’amato Ariosto che recitava “tra il fin d’Ottobre e il capo di Novembre”, Giacomo decide di evadere proprio la notte di Ognissanti, giorno di festa e quindi con il Palazzo Ducale, che ospitava appunto le carceri, semideserto.
Con destrezza i due detenuti si arrampicano attraverso i fori delle rispettive celle sull’abbaino e con un lenzuolo annodato si calano all’interno di un corridoio.
Il portone d’ingresso è chiuso a chiave ed è impossibile uscire. padre Balbi si accascia a terra sconsolato.
Non così Giacomo che tira fuori dal fagotto che si era portato appresso l’abito damascato e la camicia tutta pizzi e jabots con cui era entrato ai Piombi e, con incredibile faccia tosta, si affaccia ad una finestra gridando ad un gondoliere di essere un nobile rimasto per caso chiuso all’interno del Palazzo. Questi avverte il custode che, essendo l’alba, è rincitrullito dal sonno e, non riconoscendo in quel signore elegantissimo e nel suo valletto (così aveva presentato il frate, mimetizzato con il tabarro di velluto di Casanova stesso) i due prigionieri, tira fuori le chiavi ossequioso e apre ignaro il portone.
Casanova racconterà questa mirabolante fuga, che ebbe un’eco clamorosa, in tutti le Corti d’Europa e, in seguito con malinconia, anche ai visitatori del tetro castello di Dux in Boemia (oggi Duchcov nella Repubblica Ceca) dove da vecchio si ritirerà a fare il bibliotecario del Conte Valdeštejn.
Morirà a 73 anni nel 1798 e la sua Vita e i suoi amori sono eternati nelle tele del sublime François Boucher (nella foto un suo connotativo dipinto del 1751 “Ragazza sdraiata”) con quelle fanciulle carnose, rosee e imbottite di bambagia che Giacomo Casanova amò per davvero nella sua avventurosa, strabiliante esistenza.