Rubrica coriandoli: Una efferata vendetta alla corte degli Estensi

Categories: News

Il Rinascimento Italiano poté vantare, oltre alla lussureggiante copiosità di Artisti e di capolavori in tutte le manifestazioni dell’umano sapere, anche una profusione di corti, principati, ducati e marchesati di inusitato splendore.
Gli staterelli in cui era allora divisa la nostra penisola rifulgevano tutti di lusso e magnificenza, cultura e raffinatezza: i Visconti a Milano, i Medici a Firenze, i Montefeltro ad Urbino, i Gonzaga a Mantova, gli Aragonesi a Napoli e gli Estensi a Ferrara (solo per citarne alcuni) radunarono nelle loro corti il meglio degli Artisti dell’epoca che crearono proprio colà capolavori immortali.
Ma le corti dell’epoca costituirono anche ambientazione ideale per vicende delittuose e cupe: usurpazioni e lotte fratricide, soprusi e violenze, intrighi familiari ed assassini politici connotarono quell’epoca irripetibile.

Un clima di sospetti e di veleni aleggiava anche sopra la Ferrara di inizio Cinquecento e la vicenda che Vi narrerò ne è esempio illuminante.
Orbene, il 25 gennaio 1505 spirò il Duca Ercole I d’Este, sovrano illuminato, munifico e magnifico che, grazie alla famosa “addizione erculea” aveva ingrandito ed abbellito la città che governava, rendendola famosa in tutta Europa.
Suo primogenito (e successore) era Alfonso I che tre anni prima aveva sposato nientemeno che Lucrezia Borgia, una delle donne più famose e vituperate del Rinascimento e che ora sarebbe divenuto Duca di Ferrara.
Il vecchio Ercole I, salutato da una folla immensa ed omaggiato da esequie maestose, fu esposto al pubblico con panni sontuosi ed una magnifica giarrettiera di brillanti.
Alla sua morte, come spesso accade, si attizzarono come lingue venefiche di fuoco, gli insanabili contrasti che da sempre intossicavano i rapporti fra due dei suoi numerosi figli: stiamo parlando del Cardinale Ippolito, figlio legittimo di Ercole e del suo fratellastro Don Giulio, figlio naturale del defunto.

Oltre a divergenze temperamentali ed insofferenze personali, un nuovo motivo di contrasto e di agguerrita competizione era sorto fra i due: la conquista della cugina di Lucrezia, quell’ardente, provocante e bellissima Angela Borgia, la cui tentatrice bellezza aveva avvampato i sensi di entrambi.
E lei, persa per gli occhi d’incantesimo di Don Giulio (“gli occhi più belli di Ferrara”, si diceva) si negò al borioso Cardinale.
E tragedia sarà.
In un accigliato giorno di novembre di quel funesto 1505, il sempre elegante e protervo Cardinale Ippolito, con al seguito il suo tronfio corteggio di nobiluomini e staffieri, incontrò Don Giulio che tornava tutto solo a cavallo, da un convegno d’amore con Angela, pensò, la mente annebbiata dalla gelosia.
Sulle labbra di Giulio, il “bastardo” di Casa d’Este, come lui stesso lo appellava, Ippolito lesse, o volle leggere, un ghigno insolente, e negli occhi, in quei bellissimi occhi adescatori, un lampo beffardo.
La collera del cardinale esplose, improvvisa ed irrefrenabile: <<Uccidetelo, cavategli gli occhi>>, gridò come un ossesso.

Subito i suoi uomini si scagliarono sull’indifeso Giulio: la lama di uno di loro puntò diritto ai suoi occhi di angelo ribelle.
L’urlo atterrito di Don Giulio risuonò sinistro e prolungato, ma la stradina era deserta e lì lo lasciarono, solo, in una pozza di sangue.
Medici e chirurghi di Casa d’Este si adoperarono per salvargli la vista; ci riuscirono, ma quegli occhi, suo vanto e sua maledizione, rimasero orrendamente sfigurati per sempre.
Alfonso apprese sconvolto quella terribile vicenda di odio e di rancore.
Messo a tacere quell’istinto ferocemente punitivo che contraddistingueva i maschi di Casa d’Este, fece prevalere la ragion di Stato: non inflisse condanne ad Ippolito e, anzi, pretese che i due fratelli si riappacificassero con un plateale abbraccio di fronte a tutta la Corte.

I due, forzatamente, si incontrarono davanti al comune fratello Alfonso e a tutti i cortigiani: l’uno, Ippolito, il carnefice, superbo e tracotante nella sua ingiusta incolumità di alto prelato, l’altro, Giulio, la vittima, roso da un sotterraneo e cupo odio diretto ora anche ad Alfonso, che, con la sua iniqua decisione, aveva lasciato impunito quell’affronto delittuoso.
Gridava vendetta Don Giulio, una vendetta sorda e terribile.
Tramò e ordì una congiura di Palazzo per rovesciare proprio Alfonso, riuscendo a farvi aderire molti Nobili ed anche un altro fratello, Don Ferrante.
Ma il complotto venne scoperto e il Duca d’Este non andò per il sottile: ordinò che i complici fossero decapitati e squartati sulla pubblica piazza, davanti agli stessi fratelli cospiratori, anch’essi condannati a morte.

Ma poi evidentemente l’affetto fraterno o, forse anche stavolta l’opportunismo politico, gli suggerì un’altra soluzione che ha l’aspetto di beffa crudele: mentre i due fratelli Don Giulio e Don Ferrante stavano salendo i gradini del patibolo, un araldo annunciò che <<lo magnanimo Duca Alfonso concede loro la gratia>>, sicché la condanna a morte veniva commutata in carcere a vita.
Salvati sì, ma civilmente morti, poiché i due fratelli cospiratori furono praticamente murati vivi in anguste celle, alte (si fa per dire) un metro e mezzo, sì che era obbligatorio stare carponi o distesi.
Così “vissero” i due fratelli in quelle segrete del Castello Estense, dimenticati quasi del tutto dalle successive generazioni.

Don Ferrante ne uscirà 43 anni dopo, ma solo per raggiungere direttamente la tomba; Don Giulio sarà liberato dopo 53 anni di segregazione da Alfonso II, nipote di Alfonso I (e di Lucrezia Borgia), sollecitato, in quel gesto di umana pietà, nientemeno che dal Poeta Torquato Tasso.
Giulio era entrato in quella cella a 28 anni, ne uscì a 81 (e Dio sa come abbia fatto ad arrivare a quella veneranda età nelle condizioni in cui era stato costretto a vivere), i capelli bianchi, il fisico e la mente segnati da quella inumana segregazione.
Quando uscì, aveva ancora indosso abiti dalla foggia di cinquant’anni prima, ma nessuno osò schernirlo.
E quando morì, due anni dopo, ebbe esequie imponenti e sontuose.

Nella foto: “Risveglio di Venere”, dipinto di Dosso Dossi, mirabile pittore alla Corte degli Estensi

il-risveglio-di-venere-di-dosso-dossi