Nell’anno del Signore 1878 Gabriele d’Annunzio aveva 15 anni e tante voglie.
Si trovava a trascorrere le vacanze scolastiche nel possesso avito della Villa del Fuoco, sita in campagna, a pochi chilometri da Pescara.
L’estate si era sparpagliata all’improvviso, quell’anno: quel giorno un calore molle e umido, un che di liquefatto impregnava l’aria. Intorno, mille cicale sguaiate violentavano il silenzio.
«La strada si slanciava innanzi, sotto la rabbia del sole di luglio, bianca e vampante e soffocante di polvere tra le fratte arsicce di bacche rosse, fra i melagrani intristiti e qualche agave in tutto fiore».
E fu allora che la vide. Era una bionda, giovane, fragrante contadina, Splendore, e il giovane Gabriele, guardando quelle forme polpute e plebee, provò, per la prima volta, un morso molle alle gambe.
Il fiato caldo di luglio spargeva ruffiano l’effluvio molcente delle ginestre, degli oleandri, delle zagare, inebriandolo, «e su tutta quella sanità forte serena giovine di piante, di bestie, d’uomini, s’apriva il cielo oltremarato».
Lei fuggiva ridendo, lui la rincorreva ansimante per il caldo e il desiderio, mentre «dai mucchi di fieno intorno vaporante gli saliva su per le narici calde una voluttà di profumo». E il desiderio, nei due giovani, ardeva e fremeva.
Un giorno, dopo una folle corsa, accaldati, si lasciarono cadere sull’erba, lei, la gonna scomposta a scoprire il bianco tenerume delle cosce, lui, i sensi arruffati.
E in un tramonto d’estate, mentre un profluvio cremisi alluvionata il cielo, Gabriele decise di possederla.
Lei, gatta selvatica, un po’ per malizia, un po’ per paura, corse a nascondersi: «sgomenta, perché io non la riconoscessi, colse un grappolo d’uva nera e se lo schiacciò contro il viso, se ne impiastricciò tutta la faccia da gota a gota, da mento a fronte, si fece una maschera insana, una maschera da piccola baccante». Si era imbrattata la faccia, ingenuo espediente per celarsi, ma inconfondibile era il suo sorriso che s’apriva su «suoi denti da lupatta».
Gabriele «sentiva il sangue bollire, fermentare, come mosto vergine, dentro le vene», e allora l’attirò a sé, la baciò in bocca dieci, cento volte, e poi l’adagiò sull’erba, le tempie impazzite per il desiderio.
E lontano, tra i giunchi pieghevoli, uno sciabordìo d’acque, un murmure lieve: «e la Pescara cantava».
Il dipinto è “Ritorno dai campi” di Pasquale Celommi (Roseto degli Abruzzi 1851-1928)