Era il 1 Ottobre 1962 e io avrei compiuto 6 anni il mese successivo.
La notte precedente non avevo dormito granché: l’emozione dell’indomani, l’agognato primo giorno di scuola, mi aveva galvanizzata.
Quando la mia nonna la mattina alle 7 entrò piano piano in cameretta, io ero già sveglia, felice e trepidante.
Alle 8 pronta: grembiule nero, colletto bianco rigido, gran fiocco blu.
La cartella, di cuoio color castagna, era pronta da 3 giorni, ed ogni sera, prima di andare a letto, l’aprivo come si apriva uno scrigno, per sfiorare con le mani quelle cose nuove e preziose: il sillabario, la penna ad inchiostro con i due pennini di ricambio (era rosa confetto, la ricordo ancora), il quaderno a quadretti e quello a righe, neri con i bordi dei fogli rossi, un album da disegno, il piccolo astuccio con dentro matita, gomma, appuntamatite e il set di 6 piccoli colori a pastello marca Giotto.
Quello era tutto. Cartella leggera che danzava allegra insieme a me ad ogni passo.
L’ aria era croccante fuori, quel primo giorno di Ottobre, croccante come quel tappeto di foglie che io e la mia bionda mamma percorremmo per arrivare a Scuola. Papà non era potuto venire con noi, mi aveva abbracciata forte forte prima di uscire, sussurrandomi: “sii brava, educata, rispettosa e avida nell’imparare. Fatti onore, figlia mia”.
Credo di non averlo mai deluso.
C’era un chilometro da fare a piedi, la mia manina stretta in quella della mia mamma.
Ero felice, sì. Ogni tanto alzavo lo sguardo e incrociavo i suoi bellissimi occhi, di quel colore indefinibile tra il verde, l’azzurro e il grigio, che mi sorridevano. Compici. Come sarebbero sempre stati.
Aveva indossato il tailleur blu a pois bianchi (cucito da mia nonna Maria, sua madre, e copiato paro paro a uno di Grace Kelly, il suo mito), un velo di cipria, e i capelli raccolti in quella pettinatura a “banana”, allora di gran voga, che piaceva tanto al mio papà.
Ad ogni piccolo soffio di vento le foglie venivano giù ed era tutto un volitare di oro antico, rosso granata, ocra avvampante.
Ero felice. Decisamente.
L’atrio della Scuola Elementare di via Piemonte a Roseto era grandissimo (così mi appariva allora), brulicante e vociante, con un gran via vai di maestre, anche loro con il severo grembiule nero (lucido) e di bidelli dalla divisa azzurra.
Ed ecco, all’apparire del Direttore, annunciato da un breve e perentorio battito di mani di una maestra, il silenzio venir giù. Improvviso. Assoluto.
Il Direttore, girando lentamente lo sguardo d’intorno, iniziò a scandire i nomi dei componenti delle varie classi, cominciando proprio da noi piccoli delle classi prime. Pronunciava il nome della Maestra e poi nome e cognome dei bambini, che, uno ad uno, si staccavano dai propri cari (qualcuno piangendo, invero, e qualcun altro tentando pervicacemente di rimanere attaccato alle gambe del genitore) e andava a formare la classe in questione, per poi raggiungere, in fila per due e in silenzio, l’aula assegnata. Senza capricci e ricacciando indietro le lacrime.
L’elenco continuava e mano a mano l’atrio si svuotava di bimbi e di genitori. Che trepidazione…che attesa…la paura irrazionale e immotivata che avessero dimenticato il mio nome…la mia manina a stringere ancora più forte quella della mia mamma…
Ed ecco finalmente la voce del Direttore scandire forte e chiaro: Daniela Musini, classe prima, Maestra Maria Sorgentone.
Un tuffo al cuore.
Un bacio veloce alla mia mamma e di corsa ad incrementare la fila dei bimbi.
La Maestra mi fece una carezza e mi sorrise lieve , squadrandomi con quello sguardo intelligente e indagatore che l’avrebbe sempre caratterizzata.
Sarebbe stata un’insegnante bravissima, severa e di poche smancerie.
Sull’uscio, prima di entrare in quell’antro meraviglioso e fatato che ho sempre considerato un’aula scolastica (sia come studente che in seguito come docente) mi voltai verso la mia mamma.
Era lì, con il suo sorriso dolce, gli occhi illuciditi e, ci scommetto, con quella stretta al cuore che avrei provato io stessa 25 anni dopo, il primo giorno di Scuola delle mie figlie, quella stretta al cuore che poi la stessa mia figlia Michela avrebbe provato più di 50 anni dopo per Martina, e così sarà ancora…e ancora…e ancora…perché le emozioni più forti son sempre le stesse. Immortali.
Sapete una cosa? Sono passati tantissimi anni da quel 1 ottobre 1962, ma, credetemi, quell’odore di cuoio della mia prima cartella io non l’ho mai dimenticato…
nella foto un quadretto che campeggia nel mio studio, acquistato tanti anni fa non ricordo dove, da un rigattiere ambulante con la sua bella bancarella, piena di oggetti del bel tempo che fu…