La leggenda vuole che le violette siano nate come atto d’amore: fu Giove in persona a farle spuntare sulla terra per nutrire la sua amante Io, la splendida ninfa fluviale che lui stesso aveva trasformata in bianca giovenca per sottrarla alla gelosia di sua moglie Giunone.
E quel profumatissimo, discreto fiore, da lei prese il nome, “ion”, e “ioniàdes” si chiamarono le ninfe delle viole che con lei attraversarono il mare portando in Attica una colonia di Ioni, tanto che gli Ateniesi (sempre orgogliosi delle origini ioniche) utilizzeranno proprio le viole per ornare i templi e le tombe dei bimbi.
La Mitologia è ricca di riferimenti alle violette: i prati antistanti l’antro di Calipso, la fascinosa ninfa che tentò invano di trattenere Ulisse, erano cosparsi di migliaia di violette e pare che il bruttissimo dio Vulcano, per conquistare la riottosa Venere, si sia cinto il capo con una corona di violette e la Dea, inebriata dal loro profumo, capitolò fino a sposarlo.
La stessa Venere era appellata “iostéphanos”, coronata di viole, proprio per quel vezzo di addobbarsi con esse, emulata in ciò dalla poetessa Saffo e dalle sue discepole che, bianco vestite e cinte di corone di profumatissime viola, vivevano in quel gineceo poetico ed erotico situato nell’isola di Lesbo.
In Inghilterra, nel Medioevo, i cavalieri della Tavola Rotonda, prima di partire per le loro imprese guerresche, cercavano responsi osservando la disposizione dei raggi che, partendo dal centro delle viole del pensiero (che i Francesi chiamano “pensèes), s’irradiavano sui petali.
Nell’Ottocento, invece, i giovanotti portavano un mazzolino di violette all’occhiello della giacca per indicare alle fanciulle che erano celibi; regalarle allora, nel linguaggio dei fiori, voleva dire: “Penso sempre a te, tu pensa a me”.
La violetta divenne il simbolo di Parma perché fiore amatissimo dalla Duchessa Maria Luigia d’Asburgo che la governava e quando nel 1831 i moti rivoluzionari la costrinsero a lasciare la città, lei, con le lacrime agli occhi, partì, portandosi delle violette essiccate celate fra le pagine del suo diario.
In suo onore, nel 1870, fu creata dalla casa profumiera Borsari e la “Violetta di Parma”, un profumo amatissimo dalle nostre nonne (anche dalla mia nonna Maria e io, da piccola, furtivamente, me ne spruzzavo due gocce sui polsi, come le avevo visto fare).
La Viola, per quanto discreto e romantico, è un fiore che racchiude un che di magico e suggestivo, non fosse altro per il suo colore, che da sempre, simbolicamente, ha rappresentato la magia, il mistero e la metamorfosi.
È anche il colore legato alla Quaresima cristiana, periodo di quaranta giorni caratterizzato, come si sa, da digiuni e penitenze; così perlomeno era nei secoli passati quando, in quel lungo periodo, erano vietati giochi, divertimenti e spettacoli teatrali.
Per gli attori, che un tempo si spostavano su carrozzoni di villaggio in villaggio, di corte in corte e per i quali la Vita era già dura e connotata da magri guadagni, un periodo forzato di inattività era quanto di peggio potesse loro accadere.
Ecco spiegato il perché il colore viola, simbolo, appunto della Quaresima, era temuto e odiato. E tuttora, a Teatro, lo si evita come la peste.
Non così la più grande attrice teatrale di tutti i tempi, Eleonora Duse, che amava da impazzire quel colore, che indossava anche in scena (con buona pace dei superstiziosi compagni di lavoro) e quel fiore.
Pretendeva mazzi di viole nelle stanze degli alberghi durante le sue tournées, le portava racchiuse in mazzolini appuntati sugli abiti, e proprio petali di violette lei spargeva sul palcoscenico prima dei suoi spettacoli.
Ovvio che l’essenza principale del suo profumo fosse la violetta, nella varietà “Victoria” (pare ispirata alla Regina Vittoria) e che lei stessa si faceva arrivare dai magazzini Harrod’s di Londra, ma forse non tutti sanno che lei scriveva le sue lettere con inchiostro viola.
<<Ti bacio, ti bacio, ho avuto le violette, ti amo…>>, scriveva, ebbra d’Amore, al suo adorato Gabriele (d’Annunzio, of course), a cui, in una lettera da Alessandra d’Egitto, scriveva: <<Ti preparerò un bagno profumato di violette e di ambra egiziana…>> e poi lo accoglieva elegantissima in una delle sue “dusiane”, ovvero una di quelle tuniche morbide e fluide, di velluto violetto cangiante, che Gabriele faceva poi scivolare dolcemente a terra, mentre la riempiva di baci…
Anche la sensuale Josephine de Beauharnais adorava le violette; lei soleva portarne un mazzolino nella prorompente scollatura e fu così che la vide la prima volta Napoleone e ne rimase incantato. Josephine, guardandolo maliziosa da sotto in su, si sfilò il mazzolino di viole mammole dall’incavo del seno e glielo donò.
E il futuro Imperatore se lo portò alle nari e aspirò contemporaneamente il profumo dei fiori e quello, ancora più inebriante, della pelle di lei.
Quando convolarono a nozze, Josephine, in ricordo di quel loro primo incontro, le volle ricamate sull’abito da sposa.
Napoleone stesso, mentre era in partenza per l’esilio sull’isola d’Elba, promise che sarebbe tornato a Parigi “alla stagione delle viole”, tanto che i Bonapartisti adottarono quel fiore come simbolo da contrapporre al giglio dei Borboni.
E l’Imperatore tanto amava quel fiore, che lo “riciclò” anche durante la sua appassionata relazione con la bella Maria Walewska alla quale scrisse in una delle prime lettere: <<accettate questo mazzolino di violette…possa diventare un misterioso legame fra noi>>.
Legame che fu ben più che “misterioso” , ché il loro divenne, anzi, una struggente, veemente passione.
Alla violetta è legato anche uno struggente episodio relativo ad un’altra celebre coppia: Giuseppe Verdi ed il soprano Giuseppina Strepponi, sua compagna per lunghi decenni in quella bella Villa a Sant’Agata, vicino Busseto.
Il 14 novembre 1897 Giuseppina, colpita da polmonite e ormai anziana, giaceva in agonia sul suo letto d’inferma.
Verdi (che di anni ne aveva 84), attonito per il dolore, uscì nel giardino e colse una violetta per la sua amata Giuseppina. Gliela porse sussurrandole: <<Senti che profumo?>>. Lei, seppur debolissima, aspirò, mormorò: <<Grazie!>> e poi spirò tra le sue braccia.