Rubrica coriandoli: La leggenda di Partenope, la più bella delle sirene…

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“Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei, e ferma la nave, perché di noi possa udire la voce.
Nessuno è mai passato di qui con la nera nave senza ascoltare con la nostra bocca il suono di miele,
ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose”

Così Omero, nel canto XII dell’Odissea, faceva parlare le Sirene, creature belle e adescatrici, mentre si adoperavano, con perizia tutta femminile, ad ammaliare Ulisse.
Il loro canto, struggente e mortifero, incantava i naviganti che avevano la fortuna e la sventura di sentirlo. Tutti rimanevano estasiati dalle lusinghe delle loro melodie, si lasciavano sedurre e andavano verso di esse, ma poi, di quei marinai, non rimanevano che mucchi di ossa.

Le Sirene! Creature tentatrici ed esiziali cui Eros e Thànatos avevano infuso il loro alito.
Amore e morte. Dolcezza e rovina.
Vivevano sulle solitarie e rocciose isolette chiamate un tempo Sirenoussai e ora Li Galli, davanti a Positano, nello splendido Golfo di Napoli.
In questa insenatura, quando il vento diventa impetuoso, con le sue raffiche e i suoi ululati, il mare impreca gorgogliando, e allora sono spruzzi e sprazzi, e onde che cantano e si schiantano, e marosi bianchi e spumosi che s’infrangono contro gli scogli, che, schiaffeggiati e inghiottiti dall’acqua, riemergono, prepotenti e lucidi, solitari e solidi.

Ed era su scogli come questi, percossi dalle onde e dai venti, che vivevano le tre Sirene, figlie del dio fiume Acheloo e della Musa Melpomene, metà donne e metà uccello.
Eh già! Le Sirene erano proprio così: metà donne e metà uccelli.
Si trasformarono in donne dalla coda di pesce nel Medioevo e forse per un errore di trascrittura: pare, infatti, che un monaco amanuense, di quelli cioè che con pazienza certosina ricopiavano i documenti, riscrivendo a mano uno dei “Bestiarii”, ovvero le raccolte che descrivevano animali reali e mitologici, invece di “pennis” (penne), ricopiasse “pinnis” (pinne).
E così da donne con zampe e artigli, si trasformarono in quelle fascinose e sinuose creature con la coda.

Per tornare al nostro racconto e alle nostre Sirene, quelle di cui parla Omero erano tre: Ligea, dalla chiara voce, che traeva sonorità soavi dalla lira, Leukosia, la bianca, che suonava con dolcezza il flauto, Parthenope, la vergine, che incantava con la sua voce melodiosa.
Nessuno era capace di resistere alla loro seduzione.
Nessuno, tranne uno: Odisseo.

La maga Circe lo aveva messo in guardia dalle insidie letali delle Sirene e lui allora usò lo stratagemma di farsi legare all’albero maestro e di tappare le orecchie dei suoi compagni con della cera; solo lui poté udire quel canto dolcissimo e ipnotico e solo lui, stretto dalla morsa delle funi, poté resistere alla loro mortale malia.

Scivolò via, quindi, la nave del re di Itaca e le Sirene, che pure erano in grado di ammansire i venti, non seppero placare l’angoscia di quella umiliazione; attesero che il mare diventasse livido come piombo e solo quando questo scatenò la sua terribile furia, si lanciarono dallo scoglio per annegare in quelle acque tumultuanti.

Quando la tempesta si quietò, il corpo di Leukosia, cullata dalle onde, toccò terra più a sud e diede il nome ad un promontorio, ad una popolazione, ad una terra (la Lucania); Ligea approdò ancora più lontano e fu rinvenuta dai marinai alle foci del fiume Okinaros, nella terra dei Brutii, ovvero l’odierna Calabria.

Il corpo sinuoso di Parthenope, la più bella delle Sirene, rimase in questo golfo: dei pescatori la ritrovarono, con gli occhi chiusi e i lunghi capelli che fluttuavano tra le onde, sullo scoglio di Magaride, dove oggi sorge Castel dell’Ovo, ma appena provarono a toccarla, il suo corpo si dissolse, si fece terra, distese il capo su un’altura (Capodimonte) e con il piede toccò un promontorio sul mare, dalla vista così bella che i Greci l’avevano ribattezzato Pausylipton, “pausa dal dolore”, ovvero la meravigliosa Posillipo.

E in quel luogo dove la più bella delle Sirene era stata ritrovata, sorse la città di Parthenope che poi divenne Neapolis, la città nuova, ovvero Napoli, città ebbra di luce e di colori, luogo baciato dagli Dei.

E così, con parole meravigliose, la scrittrice napoletana Matilde Serao la omaggiò nella sua raccolta “Leggende napoletane”: “

“Parthenope non è morta, Parthenope non ha tomba, Ella vive, splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. E’ lei (…) che fa brillare le stelle nelle notti serene (…) quando sentiamo nell’aria un suono di parole innamorate è la sua voce che le pronunzia, quando un rumore di baci indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi, quando un fruscio di abiti ci fa fremere è il suo peplo che striscia sull’arena, è lei che fa contorcere di passione, languire ed impallidire d’amore la città.
Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale …è l’amore”.

Dipinto: “Sirena” di John William Waterhouse (1901)