Amava il mese di Giugno, James Joyce, uno dei più straordinari, geniali ed innovatori scrittori del Novecento, perché in quel mese colorato e luminoso del 1904 aveva conosciuto Nora Barnacle, una carnalissima e trasgressiva cameriera per la quale perse la testa fino a diventarne succube e che diventerà la donna della sua Vita, anzi il suo “splendido fiore selvatico”.
Nora fu destinataria di eroticissime lettere (“…nell’intimo di quest’amore spirituale, esiste anche un desiderio selvaggio, bestiale, di ogni centimetro del tuo corpo”…) che non lasciano nulla all’immaginazione e in cui lo scrittore manifesta anche pulsioni masochistiche.
Il 16 giugno, data del loro primo appuntamento, fu per questo geniale e anticonformista irlandese talmente importante, che la trasformò nella data in cui si svolge la vicenda del suo capolavoro “Ulisse”.
Joyce, indiscusso Maestro della Letteratura del Novecento fu anche un accanito fumatore, bevitore incallito (soffri anche di delirium tremens), fobico (per i cani e i temporali), vittima di un’insonnia incontrollabile di notte e di allucinazioni uditive di giorno.
La causa principale della sua angoscia era il senso di impotenza e di disperazione che gli procurava la grave forma di schizofrenia di cui soffriva sua figlia Lucia, rinchiusa, per queste gravi turbe mentali, nella Clinica psichiatrica di Zurigo da dove praticamente non uscirà mai.
Come se non bastasse, Joyce subì ben 12 interventi chirurgici agli occhi per cercare di debellare una pervicace congiuntivite che lo tormenterà tutta la Vita.
Nell’Aprile del 1923, a 41 anni, si vide asportare tutti i denti, perché considerati dai medici i focolai responsabili della grave e ostinata infezione agli occhi.
Ma tutti questi gravissimi problemi non gli impedirono di creare capolavori: “Gente di Dublino”, “Ritratto dell’Artista da giovane” (conosciuto in Italia come “Dedalus”), “Ulisse”, “Finnegans Wake”.
L’uso caleidoscopico che Joyce praticò dello “stream of consciousness”, il flusso di coscienza, ovvero la libera e alogica rappresentazione dei pensieri, una colata lavica di ricordi/sensazioni/citazioni/allusioni, scompaginò tutta l’organizzazione sintattica e sistematica della grammatica narrativa tradizionale e diede impulso a nuove correnti e a nuove costruzioni narrative.
Umberto Eco coniò per lui il termine di “finneghismi” per indicare la splendida, irriverente, giocosa inventiva linguistica di Joyce che si divertiva ad inventare termini nuovi, come ad es OROMOGIO, ovvero un orologio che suonava solo nelle ore tristi.
Insieme alla sua amata Nora, venne a vivere in Italia: dapprima a Trieste, dove strinse amicizia con Italo Svevo ed Ezra Pound e poi per qualche mese a Roma (abitarono un appartamento in via Frattina) come impiegato di banca per poi far ritorno nuovamente a Trieste, città che ebbe sempre nel cuore.
Da qui si trasferirono a Parigi (dove rimasero vent’anni) ed infine, alla fine del 1940, a Zurigo.
L’11 Gennaio 1941 James si sentì male: perforazione gastrica la diagnosi. Lo trasportarono d’urgenza in una clinica di Zurigo per sottoporlo ad un ennesimo intervento chirurgico, cui egli si oppose con tutte le sue forze, convinto che non si sarebbe risvegliato dall’anestesia.
Si risvegliò, Joyce, guardò sorridendo la sua Nora e poi entrò in coma irreversibile.
Morirà 2 giorni dopo, a 59 anni.