“Esistono solo due pittori: Velasquez e io”.
Modesto non lo era di certo, Gustav Klimt, ma grande sì. Indiscutibilmente. Fu il più sfolgorante esponente della “Secessione Viennese”, quel movimento artistico che conquistò l’Europa negli ultimissimi anni dell’Ottocento con una grammatica pittorica permeata di simbolismi, allusioni, eleganza e sensualità.
Nacque a Baumgarten, un sobborgo di Vienna il 14 luglio 1862 in una famiglia modesta, secondo di sette figli.
Il padre Ernst era un orafo-incisore e proprio da lui Gustav mutuerà l’amore per lo scintillio dell’oro, e le sue donne gemmate e sontuose ne saranno una splendida testimonianza.
Sua madre, Anna Fisher, era sensibile, colta e da giovane era stata un’apprezzata cantante lirica e anche due suoi fratelli mostrarono propensione per l’arte: Ernst jn era un bravo pittore e Georg un ottimo scultore.
Con questi ultimi e con l’amico Franz Matsch, Gustav aprì a Vienna uno studio e dipingeranno in maniera sontuosa e magnificente palazzi, dimore e Teatri a Vienna, Karlsbad, Fiume e Bucarest.
Quando la commissione artistica del Ministero per l’istruzione e la cultura affidò a Klimt il compito di affrescare l’Aula Magna dell’Università di Vienna, egli realizzò tra il 1900 e il 1903 i pannelli denominati “La Medicina”, “La Filosofia” e la “Giurisprudenza”, che suscitarono pareri discordi sollevando un polverone.
Accanto a critici ed artisti che osannarono quei corpi fluttuanti, quei tratti morbidi, eleganti e sinuosi, ben 87 professori universitari si schierarono contro quell’arte così nuova e dirompente, che rifiutava le regole accademiche e che tratteggiava figure non definite, spesso ammassate e in cui viene adombrata la caducità e la dissoluzione della natura umana.
Ma Klimt non era tipo da lasciarsi condizionare o intimidire da critiche e contestazioni: credeva in sé e nella sua arte innovativa e aveva fondato il movimento della “Secessione viennese” con l’intento di svecchiare la pittura da convenzioni e canoni sclerotizzati da tempo, utilizzando nel contempo il decorativismo ricco e complesso dell’Art Nouveau.
E lui ne divenne il suo rappresentante più significativo e amato.
Quel preziosismo rifulgente che ricordava i mosaici bizantini, i rimandi colti, la densità evocativa, le suggestioni erotiche dei suoi dipinti scandalizzarono i benpensanti ma affascinarono le menti più brillanti e pronte a recepire i nuovi fermenti culturali ed artistici che serpeggiavano in Europa in quegli anni e a Vienna in particolare.
La capitale di quella che venne definita in quell’epoca “Austria felix”, era una sorta di “centro di gravità permanente” della Cultura: musicisti come Mahler e Schönberg (che aveva dato vita alla rivoluzione dodecafonica), intellettuali e studiosi rivoluzionari come Freud e Wittegenstein, scrittori come Musil e von Hoffmansthal e drammaturghi come Schnitzler, animavano le serate e il dibattito culturale, vivificato dalla presenza di nuovi e dirompenti artisti come Schiele e Kokoschka allievi di Klimt e da lui sempre sostenuti e incoraggiati.
Di carattere umbratile e poco socievole, ma dall’ironia pungente e greve, Gustav non partecipava mai a serate mondane, se ne stava quasi sempre chiuso nel suo studio a dipingere non permettendo ad alcuno di andargli a fare visita ed interrompere il suo lavoro, e andava a letto presto la sera, ma ogni mattina si recava al Café Tivoli a Vienna dove gli veniva apparecchiata una opulenta colazione con una quantità enorme di panna montata.
Qui accoglieva gli amici, chiacchierava con loro un’oretta e poi se ne tornava nel suo studio.
Amante dei gatti di cui si circondava, terrorizzato dai treni e ossessionato dalla perfezione dei dettagli, lavorò per ben tre anni al ritratto di Elisabeth Bachofen-Echt portando all’esasperazione la modella che, stanca di posare per ore, un giorno prese e si portò a casa il dipinto incompiuto, suscitando le ire dell’Artista.
Non si sposò mai, ma ebbe una compagna fissa, Emilie Flöge, che insieme alle sue due sorelle aprì a Vienna una casa di moda che vestiva le donne più ricche ed eleganti della città e Klimt stesso diede il suo contributo alla creazione dei modelli che andavano a ruba.
Ebbe molte amanti (modelle e aristocratiche, intellettuali e avventuriere), e si dice ben 14 figli sparsi qua e là.
Tra i suoi amori più intensi si annovera anche Alma Schindler, all’epoca diciassettenne (lui di anni ne aveva 35) di cui s’innamora perdutamente e che trasfigura nelle sue Giuditte-Salomé, creature dallo sguardo obliquo e assassino, e quando lei lo lascerà catturata da altri amori, lui soffrirà indicibilmente.
Alma, capziosa Circe, continuerà da allora in poi la sua carriera di seduttrice seriale e crudele e annovererà fra le sue vittime anche Mahler, Kokoschka, Gropius, Werfel, insomma le menti più prolifiche e geniali della Belle Époque.
La donna fu centrale nei suoi dipinti: creature gemmate e rifulgenti come “Giuditta I” (raffigurata nella foto), ritratti celebri come quello di Adele Bloch-Bauer (per il quale utilizzò interi fogli d’oro puro e per questo considerato come uno dei dipinti più preziosi al mondo, battuto all’asta nel 2006 per la bellezza di 105 milioni di euro), carnali e sensuose come “Danae”, crudeli e fatali come “Salomé” o languide e voluttuose come nel celebre “Bacio” (in cui pare sia ritratta Emilie Flöge e se stesso) irrompono sulla scena pittorica del primo Novecento e ci catturano con la loro prorompente femminilità.
La sua modella e amante Mizzi Zimmermann, incinta di lui, gli fornì l’ispirazione per il motivo della donna in gravidanza e quando, durante la realizzazione di “Speranza I”, il figlioletto di appena un anno morì improvvisamente, aggiunse al dipinto oscure presenze conferendogli un’aura sinistra ed inquietante.
Il committente dell’opera, Fritz Waerndorfer rinchiuse il dipinto in una sorta di scrigno richiudibile e lo mostrava solo a pochi eletti.
Nel 1909 Klimt attraversò una profonda crisi esistenziale ed artistica: abbandonò il cosiddetto “periodo aureo” per creare un’arte diversa alimentata anche dal contatto con Artisti quali Matisse, Toulouse-Lautrec e van Gogh ma anche dell’Espressionismo tramite i suoi allievi Schiele e Kokoschka e allora la tavolozza di fece più accesa e cromaticamente vivace, vincendo nel 1911 il primo premio all’Esposizione Internazionale di Roma con il capolavoro “Le tre età della donna”.
La morte di Klimt fu un concorso di sfortunate circostanze.
L’11 Gennaio 1918 un ictus cerebrale gli lasciò paralizzata la parte destra del corpo e lo gettò in una profonda disperazione.
Per il sopravvenire di alcune ferite da decubito, fu condotto all’Ospedale di Vienna e poggiato su un materasso ad acqua.
Ma sopravvenne la polmonite, complicazione, a sua volta, della terribile epidemia di “influenza spagnola” che nel 1918 aveva iniziato la sua lugubre attività e che avrebbe ucciso in quell’anno più di 20 milioni di persone in tutta Europa.
Klimt morì il 6 febbraio a 56 anni. Le sue ultime parole: “Mandate a chiamare Emilie”, la sua compagna di una vita.
Il suo grande amico e allievo, il pittore Egon Schiele, disegnò la sua maschera mortuaria.
Non poteva sapere che anche lui sarebbe morto di spagnola pochi mesi dopo.
Nella foto l’opera di Klimt “Giuditta I”