Nell’anno del Signore 1348 Francesco Petrarca fu invitato da Jacopo II dei Carraresi, Signore di Padova e suo grande estimatore, a venire a risiedere nella dotta città veneta per darle ulteriore lustro con la propria presenza.
Il Sommo Poeta vi si recò di buon grado, non solo perché il suddetto suo protettore gli accordò la nomina di Canonico del Duomo di Padova, ma anche per sfuggire all’esiziale epidemia di “peste nera” che stava minacciando Milano proprio in quei mesi e che, tra le tante vittime, aveva annoverato anche la sua amata Laura, Musa dei suoi capolavori.
Nella dolcezza delle terre euganee, fra boschi di noci, faggeti e castagneti, Petrarca si trovò benissimo, traendo da quei meravigliosi paesaggi linfa creativa per la sua ispirazione poetica, e nel corso della sua esistenza vi tornò spesso e volentieri per ritemprarsi dalle fatiche letterarie e dal suo continuo peregrinare che lo avrebbero condotto, fra missioni e ambascerie varie, in Provenza, a Venezia, Milano, Mantova e a Praga.
Durante un soggiorno alle terme di Abano nella primavera 1364 per curare la scabbia, egli fece la conoscenza del paesino di Arquà (oggi Arquà Petrarca e inscritto fra i borghi più belli d’Italia) e se ne innamorò a tal punto da decidersi di stabilirvisi, soggiornando in una deliziosa dimora dal marzo 1370 fino alla notte del 19 luglio 1374, quando morì a 70 anni per un colpo apoplettico.
E da quel momento comincia un vero giallo, ancora irrisolto.
Le sue spoglie furono sepolte nella Chiesa parrocchiale del borgo, per poi essere traslate in una monumentale arca marmorea, come il Sommo meritava, davanti alla Chiesa stessa.
Ma il riposo eterno per quell’illustre corpo non era destinato a rimaner tale.
Nella notte del 27 maggio 1630 un frate, tale Tommaso Martinelli, ne trafugò alcune ossa; il motivo rimase oscuro: secondo alcuni questa azione scellerata fu dettata dal troppo vino ingurgitato, secondo altri da un motivo “patriottico”, in quanto pare questi fosse una spia dei Fiorentini che lo avevano ingaggiato per riportare in Toscana, Patria del Poeta (nato ad Arezzo) una “parte” del loro esimio concittadino.
Per la cronaca: delle ossa rubate, non fu mai trovata traccia.
Ma non finisce qui. Nel 1843, durante il restauro del monumento funebre, furono rubati un dente, una costola e un lembo di stoffa dell’abito di Petrarca, ma fu trent’anni dopo che si compì lo scempio.
Studiare i crani di persone celebri era diventata una moda, alimentata dal Positivismo, nella speranza di scoprire indizi circa la genialità di molti Grandi del passato; zoologi ed antropologi riesumarono così i teschi di Dante, Foscolo, Volta ecc.
Giovanni Canestrini era un affermato studioso e a lui fu concesso l’onore di condurre uno studio antropologico sui resti del Petrarca.
Il 6 Dicembre 1873 quindi il Professor Canestrini riaprì la tomba e quel che successe ha dell’incredibile.
Se dobbiamo prestar fede alla sua dichiarazione, il cranio del Poeta, a contatto con l’aria, si disintegrò irrimediabilmente! Sì, avete letto bene: dissolto.
Ma la cosa ancora più incredibile, e da qui il legittimo scetticismo della comunità scientifica del tempo, fu che il Canestrini fu in grado di fornire qualche tempo dopo un perfetto calco del teschio stesso, oggi conservato nel Museo di Antropologia dell’Università di Padova.
Ma come avrebbe fatto? Lui sostenne di essere riuscito a ricostruire il cranio originale utilizzando le centinaia di frammenti in cui esso si era frantumato e di aver richiuso quindi la tomba con lo scheletro ricomposto.
Ma le cose non andarono propriamente così.
Il 18 novembre 2003, in occasione delle celebrazioni per i 700 anni della nascita di Petrarca che si sarebbero svolte l’anno seguente, alcuni antropologi e scienziati riaprirono l’arca funeraria per verificare lo stato di conservazione della salma e ricostruire il vero volto del Poeta a partire proprio dal cranio.
Le ossa rimanenti del corpo del Poeta furono sottoposte all’esame del radiocarbonio 14 per accertarne la vera identità e, alla luce delle accurate analisi, gli scienziati poterono affermare con relativa sicurezza che quello scheletro conservato nel l’arca funeraria davanti alla chiesa di Arquà appartiene proprio a Francesco Petrarca: corrispondevano le dimensioni (il Poeta era molto alto e robusto) ed era stata rilevata persino la costola incrinata che il Sommo in effetti aveva a causa di un calcio ricevuto un giorno da un vivace cavallo.
Tutto bene, insomma? Eh no, perché gli studiosi, nel corso delle approfondite analisi, si accorsero con enorme stupore che il teschio poggiato sul tronco non apparteneva al Poeta del sublime Canzoniere.
Non poteva appartenergli perché quel teschio era…di una donna!
Non solo, ma gli esami rivelarono che era di una donna vissuta tra il 1134 e il 1280, quindi molto tempo prima di Petrarca, nato nel 1304.
E allora che fine ha fatto il cranio del Sommo Poeta?
Mistero. Un lugubre mistero rimasto insoluto ancora oggi…