di Daniela Musini
«Sapete qual è il segreto per essere felici e contenti?» chiese quel pomeriggio del 1938 l’elegante signora alle due figliolette mentre sorseggiavano insieme del tè. Senza aspettare la loro risposta, le guardò fisse negli occhi e sentenziò: «Soldi e potere.»
Le due bambine, nove anni l’una, cinque anni l’altra annuirono compite e da quel giorno, per tutta la vita, seguiranno alla lettera i dettami della loro mammina, l’impeccabile, implacabile e ambiziosissima Janet Lee Bouvier.
E se la prima, Jacqueline (per tutti Jackie) impalmando John Fitzgerald Kennedy arriverà a diventare la First Lady della nazione più potente del mondo e a sposare in seguito uno degli uomini più ricchi della terra (Aristotele Onassis), Caroline (chiamata familiarmente Lee come il cognome di sua madre) impiegherà tutta la sua lunga vita a cercare di uscire dal cono d’ombra di una madre impietosa e di una sorella famosa.
Oh sì, certo, anche per lei matrimoni spettacolari, una vita all’insegna del lusso sfrenato, case e gioielli da favola, feste principesche e amanti eclatanti, ma a quale prezzo: rivalità sororali mai sopite, rivalse e frustrazioni, alcolismo e depressione, relazioni sentimentali fallite e la tragedia della morte prematura di suo figlio.
Un’esistenza sgargiante e complessa quella di Lee Bouvier (in seguito Radziwill) che nella sua vita si guadagnerà certamente un posto al sole come socialite, decoratrice d’interni, dirigente delle pubbliche relazioni di aziende famosissime, icona di eleganza e stile, protagonista del jet-set internazionale, musa di scrittori e artisti, ma che non riuscirà mai a scrollarsi di dosso quell’etichetta di “sorella di”. Eterna seconda. Un macigno per lei, ambiziosa e avida di affetto e denaro.
Era nata quattro anni dopo Jackie, il 3 marzo 1933 a Southampton, uno dei sobborghi più eleganti di New York e fin dall’infanzia ha ben chiara una cosa: sua sorella l’avrebbe sempre oscurata.
E nonostante cerchi di attirare a sé l’attenzione dei genitori, s’accorge ben presto che quel padre amatissimo, sempre così distratto e frettoloso negli abbracci, e quella madre anaffettiva e inflessibile non hanno occhi che per Jacqueline.
E così un giorno la piccola Lee s’infila un paio di scarpe rosse di sua madre ed esce di casa, decisa a non metterci più piede; ovviamente viene prontamente riacciuffata dopo pochi metri e, ci scommettiamo, severamente redarguita da quella mamma dal sorriso tagliente e dagli occhi che non davano mai del tu. E sì che lei l’ha fatto per attirare quelle coccole e attenzioni che non riceve abbastanza neanche dal padre John Vernou Bouvier III, immobiliarista amante della vita scapigliata e dell’alcol, perennemente abbronzato (Black Jack era il suo soprannome) e in cerca di locali dove giocare d’azzardo e divertirsi.
La moglie dopo un po’ lo molla e convola a miliardarie nozze con Hugh Dudley Auchincloss ricchissimo avvocato e agente di cambio che assicura a lei e alle sue figlie una vita agiata, anzi lussuosa.
E quindi per Lee scuole prestigiose come la Miss Porter’s School e il Sarah Lawrence College, frequentazioni altolocate, equitazione come sport, obbligo di parlare Francese in casa perché faceva chic («mia madre non ci passava il sale a tavola fino a che non lo avessimo chiesto con perfetto accento francese», ricorderà lei nella sua autobiografia intitolata “Happy Times”), ma la sua infanzia non è felice.
Un giorno, avrà avuto dieci anni, si reca in un orfanotrofio gestito da suore chiedendo loro se poteva adottare un’orfanella: «sono tanto sola» replicò alle suore stupite. Le mancava Jackie, mandata nel frattempo a studiare in un prestigioso collegio.
Con sua sorella sarà sempre legata da un complesso e controverso rapporto di amore, complicità e rivalità. Crescendo somigliano molto fisicamente e hanno entrambe classe da vendere; anzi, Lee è persino più bella di Jackie, ma gli occhi sono più spiritati e il sorriso più tirato.
E poi da adulta quella magrezza ispida che sapeva tanto di anoressia e che risaliva alla pubertà, quando a lei, dodicenne paffutella, la dura madre impone una dieta drastica al grido di never enough rich, neither enough thin (mai abbastanza ricca, mai abbastanza magra) mutuato da un’altra famosa icona dell’upper class americana, quella Wallis Simpson divenuta anni prima chiacchierata Duchessa di Windsor.
Risultato: Lee, su consiglio di Jackie, comincia a fumare per placare i morsi della fame e continuerà a farlo per tutta la vita (60 sigarette al giorno), nutrendosi sempre di insalate e petto di pollo sconditi, verdure al vapore e uova sode, il tutto innaffiato sempre però da abbondante champagne rosé. L’alcol l’aiuterà nel corso della sua vita a respingere i demoni della mente e le ferite dell’anima ma questi, passata la sbornia, puntualmente le presentavano il conto. Salatissimo.
Le due ragazze Bouvier intanto crescono e diventano esponenti dell’alta società newyorchese; sono entrambe snelle e slanciate, amano vestire con sofisticata eleganza e partecipano alle feste e agli eventi più esclusivi nei quali spesso si appartano per parlare piano e ridere fra loro, tanto da venir scherzosamente appellate “the whispering sisters” (le sorelle sussurranti).
Ma l’armonia e l’empatia di quegli anni adolescenziali sono destinate a scemare e a trasformarsi in qualcosa di stridente e doloroso.
Lee, appena finito il College, s’inserisce nel mondo della moda e lo fa entrando dalla porta principale: diventa infatti assistente speciale della mitica e temutissima Diana Wreeland, direttrice di Harper’s Bazaar ma diviene anche un’icona di stile con il suo minimalismo e la sua classe; sarà ritratta dai più grandi fotografi del suo tempo su patinate riviste di moda con deliziosi abitini a trapezio di Dior o in sofisticate creazioni di Lanvin o in sontuosi abiti da sera di Nina Ricci e nel 1966 sarà incoronata come una delle donne più eleganti al mondo ed inclusa nell’International Best Dressed Hall of Fame List.
Sarà proprio lei ad affinare l’eleganza di sua sorella Jackie inducendola a preferire stilisti europei (Givenchy, Balenciaga, Valentino in testa) a quelli americani come avevano fatto tutte le mogli dei Presidenti prima di lei.
In famiglia riesce a rubare la scena alla carismatica sorella forse solo una volta e cioè quando, a vent’anni appena compiuti, decide di sposarsi il 18 aprile del 1953 con il magnate Michael Temple Canfield, figlio segreto, così si mormora, del duca di Kent e adottato dall’editore Cass Canfield presidente della casa editrice Harper&Row.
I riflettori dell’high society e delle cronache mondane dell’epoca la illumineranno solo per due mesi, fino a quando cioè a maggio i genitori annunciano orgogliosamente urbi et orbi il fidanzamento della loro (prediletta) primogenita Jacqueline con il rampollo di casa Kennedy, John Fitzgerald, i quali convoleranno a sontuose nozze il 12 settembre di quello stesso anno.
Lee e suo marito Mike vanno a vivere a Londra tra agi, lussi e feste, ma il matrimonio non decolla: lui è tiepido, troppo tiepido tra le lenzuola e non riesce a soddisfare la febbre di vita e la felina sensualità della moglie.
Durante una vacanza nel sud della Francia nel 1957 (sua sorella Jackie ha appena partorito Caroline e quel giorno era fuori per una passeggiata con la piccola) Lee si rotola tra le lenzuola con il cognato JFK, avendo la sfacciataggine di lasciare la porta socchiusa: lo fa per fare un dispetto al distaccato marito, che sente tutto e spiffera la cosa. E anche Jackie viene a sapere.
La vendetta, si sa, è un piatto che si gusta freddo e quest’ultima saprà aspettare ben undici anni per fargliela pagare e scorticarle il cuore, come si vedrà.
Il matrimonio con Mike era sempre più fonte di amarezze e disillusioni per Lee e l’occasione per chiudere con il botto quella stanca relazione gliela offre una vacanza in Scozia, ospiti di amici in un castello, in cui lei conosce un fascinoso aristocratico, il principe polacco Stanislaw Albrecht Radziwill (per tutti Stas) di cui s’invaghisce all’istante e ci finisce a letto, incurante del marito e dell’imbarazzo degli amici anfitrioni.
Dopo pochi mesi dà il benservito a Mike e il 19 marzo 1959 sposa Stas, diventando grazie a questo matrimonio Principessa Serenissima, titolo a cui terrà tantissimo per tutta la vita.
Nasce Anthony, che avrà un destino infausto, e poi Anna Christina, accolta con gioia, gioia che è offuscata da una insidiosa depressione post partum che avrà pesanti ripercussioni sul suo futuro equilibrio emotivo. L’8 novembre 1960 ad assestare un duro colpo alla sua fragilità psicologica è ancora una volta sua sorella maggiore che quel giorno, grazie all’elezione a Presidente di JFK, diventa la più ammirata e imitata First Lady d’America.
A quel punto Lee comprende che non ci sarà più partita e confessa fuor dai denti «chi potrebbe competere con questo? Per me è finita.»
A dare un’ennesima scudisciata alla sua autostima ci pensa il principe Filippo, marito della regina Elisabetta nonché gaffeur seriale: durante la visita di Stato di John e Jackie Kennedy alla Corte d’Inghilterra, a Lee che li aveva accompagnati, il Duca d’Edimburgo, sussurra: «Io e Lei siamo uguali: restiamo sempre due passi indietro a loro», riferendosi alla sua regale consorte e alla di lei aristocratica sorella. Anche stavolta Lee incassa il colpo con un sorriso che è una spada sguainata e si scola con eleganza una sequela di coppe di champagne.
Intanto il suo matrimonio con Stanislaw procede all’insegna del divertimento e della mondanità. Costituiscono una coppia fascinosa e “aperta”: tradisce lui, tradisce lei ed entrambi accolgono con entusiasmo a casa loro per sette mesi Rudolf Nureyev, amato e concupito da ambo i sessi, che diventa l’amante di lei (e qualcuno mormora anche di lui).
Ma “Rudy, il tartaro volante”, che possedeva una villa sull’isoletta Li Galli davanti alla costiera amalfitana, seduce anche Jackie, lì in vacanza per ritemprarsi dopo l’affaire scandalistico di suo marito con Marilyn Monroe trovata morte per overdose di barbiturici (così si disse) proprio in quel radioso mese di agosto del 1962.
Jackie in quell’estate italiana imbastisce una liason tutta glamour ed erotismo niente meno che con Gianni Agnelli, il quale quando la First Lady ripartirà, si consolerà con Lee, eterna seconda anche questa volta. Ma se il magnate italiano è solo un flirt passeggero, nella sua turbolenta vita entra in maniera roboante Aristotele Onassis; diventano amanti spaccando il cuore a Maria Callas, compagna storica di Ari che per lui aveva divorziato e messo in gioco la sua sublime carriera.
Lee stavolta s’innamora davvero, ma commette un errore fatale invitando sua sorella Jackie sull’isola di Skorpios di proprietà dell’armatore. Lo fa con un atto di amore e generosità poiché in quell’Agosto 1963 Jackie è straziata dal dolore per la morte del figlioletto Patrick nato prematuro e vissuto solo due giorni, che ha rinnovato in lei il dolore già patito per la prima bambina avuta da John, Arabella, nata e morta nella stessa data sette anni prima.
Lee ha un colpo al cuore quando s’accorge che l’armatore guarda sua sorella con occhi predaci, ma mai immaginava che cinque anni dopo il suo Ari avrebbe liquidato senza batter ciglio la Callas e lei stessa per impalmare Jacqueline, la vedova più ambita d’America.
«Come ha potuto farmi questo?» mormorerà attonita e sconsolata ai suoi amici. Ingenua.
Forse aveva dimenticato che: 1) sua sorella aveva buona memoria (e non aveva scordato il pomeriggio di fuoco che lei aveva trascorso con John suo marito); 2) a sua sorella piacevano i gioielli costosi (e Onassis gliene faceva trovare uno ogni sera a cena nascosto nel tovagliolo); 3) sua sorella amava moltissimo i soldi (e Ari le aveva offerto un contratto prematrimoniale stratosferico).
Lee è uno straccio, pur tuttavia partecipa alle fantasmagoriche nozze Onassis-Bouvier Kennedy dove incontra il fotografo Peter Beard e poiché la teoria del chiodo scaccia chiodo molte volte funziona, si lega a lui in un rapporto disinibito e festaiolo, mollando il principe Radziwill (ma di cui conserverà cognome e titolo) e abbandonandosi ad un’esistenza bohémienne.
Con Jacqueline i rapporti sono spesso urticanti: «Essere sorelle» ammetterà con sincerità «vuol dire amarsi e non sopportarsi. Prendersi cura l’una dell’altra e non parlarsi» e per le sorelle Bouvier era e sarà sempre così.
Nel 1972 è al seguito dei Rolling Stones, diventando la loro groupie più chic, sempre in camicia bianca di Charvet (la lussuosissima maison di camicie su misura di Place Vendôme a Parigi) in un tour epocale fra pubblico in delirio, dionisiache trasgressioni e vassoi di quella che d’Annunzio appellava la bianca “polvere folle”.
Lee Radzwill è sempre più un personaggio di punta del jet-set internazionale e musa di quel geniaccio di Andy Warhol che da quattro scatti di polaroid in cui lei appare bellissima con un semplice “dolcevita” nero, ricaverà uno dei ritratti più iconici della Pop Art.
Il suo amico più caro è in quegli anni lo scrittore e sceneggiatore Truman Capote e c’è anche lei tra i selezionatissimi invitati al celebre Black and White Ball tenuto al Plaza Hotel di New York il 28 novembre 1966 per celebrare il successo del suo romanzo “A sangue freddo”.
L’outfit è imperativo: solo due colori ammessi, il bianco e il nero (un rimando alla immaginifica sequenza della corsa di cavalli di Ascott del film My fair Lady con i favolosi costumi black and white di Cecil Beaton che le valsero l’Oscar), volti coperti da maschere e come gioielli «solo diamanti» per evitare che gemme come rubini, smeraldi e zaffiri “rovinassero” la voluta assenza di colore.
Festa appariscente e sontuosa che rimase negli annali della storia del costume del Novecento a cui parteciparono tra gli altri i duchi di Windsor, Greta Garbo, Sinatra e Mia Farrow, i Kennedy, gli Agnelli, il maharaja di Jaipur e ingioiellata consorte; non si contarono le eccentricità quella sera e gli abiti da mille e una notte: Lee brillò su tutte con un semplice e splendido abito bianco e argento di Mila Schön.
Con Capote l’amicizia si infranse fragorosamente nel 1975 quando Lee prese le distanze rifiutando di testimoniare in tribunale in suo favore nello scontro che lo vide contrapporsi all’altro scrittore Gore Vidal, scontro da lei stessa definita con spregio e assai poco elegantemente «una disgustosa rissa tra froci» (per la cronaca: Capote fu costretto a risarcire l’ex amico con un milione di dollari).
Gli anni Ottanta la vedono testimonial e “ambasciatrice” di Giorgio Armani negli States occupandosi per lui di pubbliche relazioni, ma anche raffinata decoratrice di interni per le dimore dei suoi amici miliardari: «il mio stile personale è riflesso nel mio gusto per l’esotico e l’inatteso. Mi piace creare stanze essenzialmente tradizionali e poi aggiungere tocchi bizzarri e deliziosi» dirà in un’intervista.
Dopo un matrimonio sfumato a poche ore dalla cerimonia nuziale con Newton Cope, il ricchissimo proprietario della catena degli Huntington Hotel (che, si mormora, avrebbe dato retta agli amici che da sempre avevano cercato di dissuaderlo da impalmare quella sanguisuga) e dopo vari flirt con politici e aristocratici, il 23 settembre 1988 sposa il regista e produttore cinematografico Herbert Ross e trova con lui una sorta di acquietamento sentimentale.
Quando la sorella Jackie si spegne a 65 anni il 19 maggio 1994 per un tumore, Lee è al suo capezzale, in lacrime, nonostante tutto.
Ma all’apertura del testamento miliardario, si scopre che Jackie aveva distribuito il suo patrimonio colossale fra tutti i familiari, riservando lasciti anche ai suoi dipendenti, ma a Lee non va un cent e neppure una spilla come ricordo: «Non lascio niente a mia sorella Lee, che ho tanto amato, perché per lei ho già fatto tutto nella vita» stava scritto perfidamente nell’ultima pagina del testamento.
Un’ultima, lancinante stoccata da parte di Jacqueline a cui lei replica in un soffio: «È vero. Ci siamo date e tolte già tutto nella vita.»
Il destino le riserva due dolori strazianti: la morte dell’amatissimo nipote John-John il 16 luglio 1999 in un incidente aereo in cui persero la vita anche la bella moglie e la di lei sorella, e quello ancora più lancinante il 10 agosto di quello stesso anno, quando muore suo figlio Anthony di cancro. Aveva appena compiuto 40 anni.
Negli ultimi anni la si vede partecipare a sfilate di moda ed eventi mondani, sempre elegantissima e magrissima, il viso ancora più tirato da ripetuti interventi estetici, gli occhi affilati, guardinghi e glaciali.
Lee Radziwill muore per cause naturali nella sua splendida casa di Manhattan il 15 febbraio 2019 a pochi giorni dal suo ottantaseiesimo compleanno.
Prima di spirare aveva espresso due desideri: che fosse spalancata la finestra per far entrare una boccata d’aria fresca e una coppa di champagne. Rosé, ça va sans dire.
L’articolo è stato pubblicato sulla testata Vanilla Magazine