di Daniela Musini
Splendeva un sole ribaldo quel giorno di giugno del 1953 sul vasto parco di Hyannis Port, magnifica residenza estiva di Joe e Rose Kennedy situata a Cape Cod, penisola del Massachusetts che s’incunea come un uncino nell’Oceano Atlantico.
Eunice, Patricia e Jean Ann osservavano attraverso le feritoie dei loro occhi la ragazza che poco più in là incedeva elegante e permeata di grazia sottobraccio al loro fratello John.
Come per un richiamo muto lei si voltò verso la loro direzione e schiuse le labbra in un sorriso appena accennato; le tre sorelle Kennedy risposero facendo bye bye con la manina: she’s just a deb (è solo una debuttante) mormorarono fra loro sospirando prima di addentare con delicatezza dei deliziosi marshmellows.
Quel giorno, in quel luogo d’incanto, si festeggiava con un sontuoso ricevimento il fidanzamento di John (per tutti Jack), rampollo della potente e influente famiglia Kennedy, con la raffinata Jacqueline Bouvier (per tutti Jackie) ed erano convenuti in centinaia: personalità di spicco, magnati, industriali blasonati e politici di rango, tutti a omaggiare quella coppia bella, rifulgente e di successo.
Radiosa e compenetrata nel ruolo, dall’aria vagamente enigmatica e dall’allure decisamente sofisticata: ecco come appariva a tutti la futura sposa che sfoggiava per l’occasione un anello di fidanzamento creato appositamente dalla maisonVan Cleef & Arpels e formato da un diamante di 2,88 carati e uno smeraldo di 2,84 incastonati vicini.
Jackie aveva allora 24 anni, essendo nata il 28 luglio 1929 a Southampton, vicino New York, primogenita di una famiglia dell’alta società: suo padre John Vernou Bouvier III è un immobiliarista e mediatore d’affari di origine franco-olandese fascinoso, megalomane e scapestrato, con una smaccata inclinazione per il gin e il sesso (con donne che non fossero sua moglie prevalentemente); l’adora in modo forsennato («sei nata per regnare e io sono il tuo primo schiavo» le dice spesso) e instilla in lei la propria idea di femminilità, ovvero un connubio di charme, eleganza e riserbo: «quando sorridi, ricordati la Gioconda di Leonardo», le ripete come un mantra, suggerimento cui lei si atterrà tutta la vita.
La madre, Janet Norton Lee, è algida, impeccabile e intransigente, imparentata alla lontana con gente di nome Rockefeller e Vanderbilt, i padroni dell’America, e educa lei e la secondogenita Caroline Lee (chiamata familiarmente solo Lee) ad essere due macchine da guerra nella scalata sociale: solo il meglio da desiderare, solo obiettivi eccelsi da raggiungere, solo traguardi ambiziosissimi da conseguire.
Jackie è fatta della sua stessa pasta e metterà in pratica gli insegnamenti di mom con implacabile determinazione, passando sopra i cadaveri se necessario (Maria Callas sarà uno di questi).
L’infanzia delle sorelle Bouvier è di quelle dorate tipiche dell’alta società dell’East Coast; Jackie, ad esempio, a 5 anni ha già un pony tutto suo (coltiverà l’amore per i cavalli per tutta la vita) e anche l’adolescenza sarà da sogno, punteggiata da vacanze da miliardari, frequentazioni giuste, e per lei in particolare studi al prestigioso Vassar College per una laurea in belle Arti e infine corso di perfezionamento alla Sorbonne nella elegante e a lei così confacente Parigi.
Diventa una ragazza fascinosissima, Jackie, dalla bellezza disarmonica ma irresistibile: occhi piuttosto distanti fra di loro, viso ossuto ma dalla delicatezza di una porcellana di Dresda (come scriverà un quotidiano quando nel 1947 sarà eletta “debuttante dell’anno”), portamento regale, bocca carnosa ma non volgare e sempre atteggiata ad un sorriso segreto, come da insegnamento paterno. Anche il corpo è diverso dai canoni femminili di quegli anni: magro e scattante, nessuna vellutata morbidezza, nessuna burrosa femminilità (come sarà per Marylin, sua acuminata spina nel fianco).
È ricca di suo, ma vuole lavorare e affermarsi, e così nel 1952 entra nella redazione del quotidiano Washington Times-Herald come inquiry camera girl, ovvero come fotoreporter (la fotografia è un’altra sua grande passione) che per strada andava a caccia di immagini e opinioni della gente comune.
L’anno precedente si era fidanzata con un agente di borsa, tale John Husted, ma l’ambiziosissima mamma Janet aspirava per la primogenita a un matrimonio con qualcuno di rango molto più elevato, e così il John sbagliato fu liquidato in quattro e quattr’otto mentre all’orizzonte si profilava il John giusto, che di cognomi ne aveva addirittura due: Fitzgerald Kennedy.
Il primo incontro fra John e Jacqueline era avvenuto per caso nel 1948 sul treno Washington D.C.-New York e lei, inconsapevolmente profetica, aveva annotato sul suo diario di aver conosciuto «un alto e snello giovane membro del congresso dai lunghi capelli rossicci» e averci scambiato qualche chiacchiera di convenienza.
Il secondo incontro non avviene per caso, ma è organizzato dal lungimirante e pronubo giornalista premio Pulitzer Charles Barlett e da sua moglie Martha che l’8 maggio 1952 combinano un romantico rendez-vous fra i due invitandoli a cena a casa loro.
Si piacciono subito: lui osserva ammirato quella ragazza così controllata e piena di charme, lei prova brividi sfacciati per quel bel ragazzone aitante dagli occhi blu e dal sorriso guascone che sta scalando con successo le impervie salite della politica grazie non solo alle proprie indubbie capacità, ma anche all’influenza dello spregiudicato patriarca di famiglia Joe, che pur di assicurare ricchezze (smisurate) e potere (illimitato) alla propria famiglia, non si perita, si dice, di trescare con malavitosi e mafiosi.
Lui e Rose avevano avuto 9 figli: il primogenito, Joseph Patrick jn, era morto nella seconda guerra mondiale mentre volava su un bombardiere sopra l’Inghilterra, poi era nato John, Rosemary (la più bella e sfortunata di tutti, vivrà per gran parte della sua vita internata in un istituto per malati mentali) Kathleen (morta nel 1948 anche lei in un incidente aereo come il fratello), Eunice, Patricia, Robert (Bob), Jean Ann e Edward (Ted).
Quando John/Jack aveva rivelato al padre che si era innamorato di Jacqueline/Jackie, il lungimirante e calcolatore Joe vede in quella fanciulla raffinata e così poco “americana” nei modi, la moglie ideale per suo figlio e l’accoglie benevolo nel clan dei Kennedy («erano come l’acqua del seltz: stimolanti, gai, aperti, disponibili», li definirà lei anni dopo).
In vista del matrimonio lei si licenzia da Vogue,la più sciccosa fra le riviste di moda e costume dov’era entrata nel frattempo vincendo un concorso e ne era diventata la fotografa-giornalista più brillante e promettente, ma prima fa in tempo a consegnare il suo ultimo reportage: l’incoronazione a Londra della regina Elisabetta d’Inghilterra il 2 giugno 1953.
Il matrimonio fra il rampollo di casa Kennedy e la primogenita di casa Bouvier fu celebrato il successivo 12 settembre nella Chiesa di St. Mary a Newport, a Rhode Island con 800 invitati selezionatissimi: oltre ai parenti della sposa e all’intero numerosissimo clan, era presente la crème de la crème americana (e non solo) che annoverava banchieri, miliardari, aristocratici e magnati, cui se ne aggiunsero altri 400 al sontuoso ricevimento alla Hammersmith House, la meravigliosa tenuta della famiglia Bouvier.
Gli sposi erano bellissimi e radiosi: Jack in impeccabile tight e Jackie con un abito sontuoso e magnifico non scelto da lei (che ne avrebbe preferito uno più sofisticato e semplice) ma dalla sua onnipresente madre con l’avallo dell’onnipotente suocero.
Formato da 50 metri di taffetà di seta color crema con un velo principesco di merletto di Burano appartenuto a nonna Bouvier, presentava sull’amplissima gonna una profusione di minuscoli e preziosissimi fiori di arancio di stoffa fatti a mano dalle lavoranti della celebre sarta Ann Lowe, stilista afro-americana di grandissimo talento che creava abiti da sogno per le miliardarie di New York e le Dive di Hollywood.
Dieci giorni prima del matrimonio, ad abito quasi ultimato, nell’atelier della sarta esplose una tubatura e l’acqua fuoriuscita rovinò irrimediabilmente l’abito da sposa di Jackie.
Una tragedia, ma la Lowe era una donna caparbia e indomabile: conscia che se la notizia si fosse sparsa, la sua immagine sarebbe crollata, costrinse al segreto le sue lavoranti, ricomprò a proprie spese la costosissima stoffa, ingaggiò altre ragazze fidate e lavorando notte e giorno a ritmi pazzeschi, riuscì a consegnare il favoloso abito per la data concordata.
Ann Lowe ci rimise ben 2000 dollari (del 1953) ma salvò la faccia e quando gli sposi aprirono le danze al suono della romantica I married an angel (Ho sposato un angelo) suonata dall’orchestra, tutti gli illustri ospiti poterono ammirare i volteggi della sposa in quel meraviglioso, spumoso abito confezionato tra le lacrime e il ticchettio impietoso della pendola che scandiva il trascorrere inesorabile del tempo.
Prima notte di nozze al Waldorf Astoria di New York e luna di miele da sogno ad Acapulco in Messico. Di miele? Per qualche columnist (ovvero i giornalisti pettegoli e molto seguiti sui rotocalchi) in realtà fu di fiele in quanto, pare, Jack cominciò a tradirla già allora e lei, già allora, ad incassare con garbo (ma rosicchiandosi le unghie delle mani a sangue).
Jackie fin dall’inizio fece di tutto per assecondare il suo smagliante marito e rendersi irresistibile ai suoi occhi, imparando persino a cucinare (con risultati mediocri), a praticare bridge e golf (tanto amati da lui quanto detestati da lei), ad aspettarlo fino a tarda notte e a non fare domande al suo rientro a casa. Che quel matrimonio non sarebbe stato due cuori e una (futura) Casa Bianca, lei lo capisce subito.
Lui è innamorato, forse («non ho mai amato davvero nessuna donna, ma sono stato abbastanza interessato ad un paio, tra cui mia moglie» pare abbia detto una volta con cinica nonchalance), ma sessualmente è bulimico come tutti i maschi di casa Kennedy (pure suo padre era stato un amante compulsivo e aveva perso la testa per Gloria Swanson, la diva di Viale del tramonto) anche a causa della mistura di steroidi, anfetamine e novocaina che era costretto ad assumere regolarmente per placare i dolori violenti alla schiena, retaggio di una ferita di guerra.
Jackie sa benissimo che suo marito accede spesso all’Hotel Mayflower di Washington (lo fa dal garage tramite un passaggio segreto) per recarsi nella suite situata all’ottavo piano dove una disinibita e ogni volta diversa fanciulla lo aspetta in camera: a procurargliele ci pensa l’attore Peter Lawford, il fidato marito di sua sorella Patricia e componente di quel clan potente e festaiolo che faceva capo a Frank Sinatra.
Gli amplessi sono infuocati e repentini dacché JFK non è uno che in quelle occasioni si perde troppo in preliminari e carinerie: slam bang, thank you madam (una botta e via insomma, e mi si perdoni l’ardire).
Ogni volta che torna a casa trova Jackie che l’accoglie guardandolo dritto negli occhi e sempre con quel suo enigmatico sorriso. Lui sa che lei sa. Jackie tace, per amore e per stile, e continua ad apparire sempre levigata e perfetta al suo fianco: impeccabili tailleur, triplice filo di perle ed espressione serena e rassicurante.
Ma serena non è: non riesce a rimanere incinta e questo la tramortisce psicologicamente e la umilia, così come le continue infedeltà del marito.
Un giorno spalanca la porta dello studio dove Jack era intento a lavorare alla scrivania e gli si para davanti, sguardo da coguaro e nessun sorriso; gli punta davanti alla faccia l’indice da cui fa dondolare un paio di slip di pizzo ritrovati sotto un divano della Casa Bianca: «Trova tu la proprietaria, non sono della mia taglia.» Li getta per terra e gira i tacchi, schiena dritta e testa alta.
La proprietaria era una giovane segretaria di 19 anni, capelli biondi e pelle di latte come piacevano a lui. Bionde saranno infatti molte delle sue amanti: Kim Novak (condivisa con suo fratello Bob), Zsa-Zsa Gabor, Angie Dickinson, Lana Turner, Jane Mansfield, Marlene Dietrich.
La nostra Sophia Loren gli diede il due di picche. Idem Shirley MacLaine. Almeno loro.
Marylin (anche lei amante di entrambi i fratelli Kennedy) è un’altra storia che rischierà di travolgere lui e che sicuramente ucciderà lei (barbiturici o altro non si sa ancora).
Quando Jackie nel 1955 scopre la relazione fra suo marito e una splendida svedese di nome Gunilla von Post iniziata nel 1953 dieci giorni prima delle nozze e mai interrotta, chiede il divorzio.
Il clan Kennedy trema e teme lo scandalo: la carriera politica di Jack era in sfolgorante ascesa e lui proiettato verso le elezioni presidenziali del 1960. Jackie poi ci ripensa e ritira la richiesta: forse perché nel frattempo si accorge di essere rimasta incinta o, secondo i maligni, grazie all’elargizione da parte di papà Joe e mamma Rose di un milione di dollari.
La piccola Arabella nasce e muore il 23 agosto 1956 e per Jackie è un dolore squassante, acuito dalla lontananza del marito che era in Europa (non da solo) e che apprese la notizia solo tre giorni dopo. Tornò Jack e seppe farsi perdonare: il 27 novembre 1957 nacque Caroline, sana e robusta, accolta senza entusiasmo dal papà che confidava in un maschio.
Arriva anche l’agognato erede dopo tre anni, il 25 novembre 1960, esattamente cinque giorni dopo l’elezione del suo celebre papà a Presidente degli Stati Uniti d’America: si chiamerà John Jn. (John-John per familiari e amici), avrà un fisico statuario e un destino infausto, come molti Kennedy.
Jackie ora è raggiante, finalmente: due figli belli e sani e first lady della nazione più potente del mondo accanto ad un uomo amato e osannato come strenuo difensore dei diritti civili contro i pregiudizi classisti e razziali: una nuova era per l’America che guarda con fiducia e orgoglio al futuro. Appare al suo fianco e irradia charme, glamour, raffinatezza.
Riarreda con il suo innato gusto la Casa Bianca e persino l’Air Force One, l’aereo presidenziale che all’occorrenza (ma anche di questo Jackie era al corrente) si trasforma in alcova e dove anche Marylin era salita a bordo più volte, infagottata per mitigare le sue esplosive morbidezze e con parrucca nera. Marylin, già.
Jackie, che tutto vede e tutto sente, lo sa bene che per lui è solo un violento capogiro erotico, mentre per lei, poverina, è un amore che le si è aggrovigliato addosso; sa bene che anche questa passione è destinata a finire: per questo gira la testa dall’altra parte e fa finta di non vedere.
È maestra di sottili infingimenti e sa incassare con eleganza e lo fa anche la sera del 19 maggio 1962 in cui al Madison Square Garden davanti a 15.000 persone, a festeggiare il quarantacinquesimo compleanno del suo Jack, c’era anche Marylin apparsa all’improvviso dentro una lama di luce a intonare Happy Birthday, Mr President, inguainata in un niente trasparente e abbagliante, femmina come nessun’altra, dannazione.
Tre mesi dopo, il 5 agosto, Marilyn sarà ritrovata morta e Jackie si limiterà a dire: «Sarà ricordata in eterno.» Dopo di che, il 7 di quello stesso mese se ne va in vacanza con la sorella Lee in Italia sulla costiera amalfitana. E se erano stati sussurri che lei sotto sotto avesse reso la pariglia al suo Jack andando a letto con Franck Sinatra e William Holden, è cosa certa che lei consumò in quell’estate italiana una relazione infuocata con Gianni Agnelli nella splendida Villa Episcopio di Ravello.
Le immagini di loro due insieme a spasso per Capri fanno il giro del mondo e molte donne cominciano a vestirsi come lei: sandali rosa (ne ha una collezione intera), pantaloni bianchi a sigaretta e corti alla caviglia, enormi occhiali da sole.
Era diventata un’icona di stile fin da quella copertina del 1953 che la rivista Life le aveva dedicato in occasione del loro fidanzamento; e da allora tutte le donne del mondo l’avevano ammirata in quegli abiti che lo stilista franco-russo Oleg Cassini aveva creato per lei (saranno circa 300, quasi tutti in nuances tenui e raffinate: glicine, azzurro cielo e panna) o nei meravigliosi abiti da sera di Balenciaga, avevano copiato i deliziosi cappellini di Courrèges che lei alternava ai foulard Hermés (ne aveva più di cinquanta) portati “alla contadina”, ossia annodati sulla nuca.
La maison Gucci in suo onore ribattezza una sua borsa di successo Jackie, così come Jackie O verrà intitolato il nightclub romano più famoso dagli anni Settanta in poi.
Ma l’immagine più iconica e struggente nell’immaginario collettivo è lei in quel tailleur rosa confetto di Chanel con cappellino a tamburello in tinta che indossava in quel maledetto 22 Novembre 1963 a Dallas, quando, sconvolta e disperata, si lancia sul cofano posteriore della Limousine a recuperare, in un gesto vano e straziante, i brandelli di cervello di suo marito che erano schizzati dopo che due colpi di fucile gli avevano asportato metà calotta cranica.
John Kennedy non morì subito e lei lo tenne abbracciato stretto, quel marito amato e fedifrago, sussurrandogli ancora e ancora ti amo Jack durante la corsa forsennata e inutile al Parkland Memorial Hospital, dove lei s’inginocchierà e pregherà piangendo mentre lui era in sala operatoria.
E tutto il mondo la vide scendere la scaletta dell’Air Force One al braccio del cognato Bob, lo sguardo smarrito, il viso terreo con indosso ancora il tailleur rosa insanguinato. Non aveva voluto cambiarsi perché tutti vedessero «cosa gli hanno fatto»
Il giorno del funerale, con Bob che la tiene per mano, tutti si commuovono vedendola vestita a lutto, dignitosa, gli occhi asciutti sotto quel velo nero che le copre il volto ma che non riesce a celare i lineamenti induriti dal dolore: una figura epica e dolente.
Ha voluto per suo marito lo stesso rito che era stato riservato a Lincoln e mentre la banda della Marina esegue la Marcia Funebre “Sulla morte di un Eroe” dalla terza Sinfonia di Beethoven, lei prende per mano i loro due bambini: Caroline di sei anni e John-John (tre anni compiuti proprio in quel giorno) il quale, con un gesto che strazierà tutti, si porta la manina alla fronte e accenna al saluto militare.
A Washington, nella cattedrale di San Matteo dove si svolgeranno le esequie, lei s’inginocchierà e bacerà la bandiera americana che avvolgeva la bara del marito.
È un dolore contenuto ma devastante il suo che si ripete cinque anni dopo quando viene ucciso anche suo cognato Bob, di cui si era scoperta nel frattempo innamorata pazza. E ampiamente ricambiata.
Le parole dello scrittore e sceneggiatore Truman Capote che li frequentava non lasciano dubbi: la loro fu «una passione rovente e senza speranza» confermata anche da Gore Vidal («Robert fu l’unico uomo che Jackie abbia mai veramente amato»), dalle foto rubate in cui si vedeva lui uscire di soppiatto di notte da casa di lei, dai fascicoli raccolti su di loro della FBI e infine dal libro scottante di David Heyman “Bobby and Jackie: a Love Story”.
Quando Bob nella notte fra il 5 e il 6 giugno 1968 dopo che Shiran Shiran aveva fatto fuoco su di lui con una calibro 22, viene ricoverato agonizzante al Good Samaritan Hospital di Los Angeles, e quando dopo l’intervento chirurgico appare chiaro che non riprenderà mia conoscenza, è lei, e non la moglie Ethel, a ordinare ai medici di staccare la spina.
E se al funerale del marito il suo leggendario autocontrollo le aveva impedito di piangere, al funerale del cognato tutti la vedono con gli occhi gonfi di lacrime e comprendono. E non la giudicano per questo amore colpevole, clandestino e senza scampo.
Ma quando il 20 ottobre di quello stesso anno lei, vestita con un abito corto di pizzo avorio di Valentino sposa il magnate greco Aristotele Onassis, l’America tutta insorge.
Fu il titolo lapidario del “New York Times” a colpire al cuore e a dare voce all’indignazione generale: John Fitgerald Kennedy muore per la seconda volta.
Quel matrimonio non era visto solo come una deprecabile operazione di marketing fra una donna avida e uno spregiudicato magnate: era percepito come un vero e proprio tradimento alla memoria del loro Presidente, un affronto verso l’intera nazione, verso il “sogno americano” che Jack e Jackie avevano rappresentato.
Il giorno delle nozze lei ha stampato sulle labbra un sorriso preconfezionato, Onassis ostenta l’atteggiamento spavaldo del vincitore, Caroline (che ha 11 anni e nel cuore il ricordo indelebile di suo padre) mostra un’aria tenera e imbarazzata e il piccolo John-John tiene gli occhi bassi davanti alla selva di fotografi che l’assediano.
Ma anche i figli del magnate sono ferocemente contrariati da quelle nozze; Alessandro sibilerà: «eccoci imparentata con una cortigiana» e Cristina, la sorella, le riserverà un odio imperituro.
Ci sono due donne che rimangono inebetite alla notizia di quelle nozze: la prima è Maria Callas il celeberrimo soprano da lungo tempo legata all’armatore, che apprende la notizia dai giornali e ai media che le danno l’assalto dirà con ostentata nonchalance: «Jacqueline Bouvier Kennedy ha fatto bene a dare un nonno ai suoi figli.» Lo dirà con il suo sorriso più smagliante mentre il cuore si frantumava in mille pezzi.
L’altra è sua sorella Lee, l’eterna seconda, amante in quel 1968 (e innamorata persa) di Aristotele che quando si vedrà messa da parte per far posto all’amata/odiata sorella, si vendicherà, così si racconta, con parole al curaro: «quando Jackie si mise in cerca di un nuovo, remunerativo impiego, le consigliai Onassis. Faceva l’amore come un riccio. Ed era Onassis. Lei gli entrò nel letto e gli costò cento miliardi.» Più di una petroliera, sottolineò qualcuno.
Per conquistare l’ambita vedova Kennedy, Ari le aveva regalato un solitario da 40 carati e firmato un contratto prematrimoniale che le garantivano tre miliardi di dollari l’anno per le piccole spese e una liquidazione di 25 miliardi in caso di decesso di Ari o di divorzio.
Sarà lei a voler aggiungere un’altra clausola: non più di tre rapporti sessuali al mese.
Non male per l’unica principessa delle fiabe che prima ha baciato il principe e poi il rospo come velenosamente scrisse il “Sunday Times”.
Matrimonio che scoppia presto: lei lo tradisce con Roswell Gilpatric a cui invia lettere in cui dà del cretino e del vecchio porco al marito e questi ritorna dalla Callas pentito.
E si vendica di quella moglie algida e venale pagando dei fotografi che la immortalano sull’isola di Skorpios completamente nuda: il suo corpo snello e tonico finisce sulle pagine del Playmen italiano e su quelle della scandalosa rivista americana per soli uomini Hustler che vendette due milioni di copie.
Divorziano e Jackie torna a New York. Va a vivere al 1050 di Fifth Avenue e torna ad occuparsi di editoria e giornalismo. Dopo amanti più o meno celebri tra cui Rudolph Nurejev che prima di morire si vantò poco elegantemente di essersi portato a letto dopo lei anche la sorella Lee (eterna seconda anche questa volta), vivrà una quieta storia d’amore con Maurice Tempelsman, un ricchissimo mercante di gioielli.
L’aveva detto fin da giovanissima, Jackie: «Voglio vivere, non essere una testimone della mia vita» e in effetti Jackie fu protagonista assoluta di un’epoca irripetibile, ma quando in una delle ultime interviste da lei concesse il giornalista le chiese a bruciapelo «com’è stata la sua vita, Mrs Bouvier?», lei, con un bagliore freddo negli occhi, rispose: «Interessante.» Nulla di più.
Il 19 maggio 1994 muore per un tumore. Non aveva ancora compiuto 65 anni.
John-John disse ai giornalisti: «Se n’è andata come desiderava, nei termini che ha scelto lei» e questa frase sibillina innescò l’ipotesi di suicidio, ripresa anche nel libro di David Heymann (sempre lui) “Una donna chiamata Jackie”.
Colei che aveva dapprima esaltato e poi fatto indignare l’America fu sepolta nel cimitero di Arlington, accanto alla tomba del marito John.
Sulla sua lapide, oltre alle date di nascita e di morte, si legge: Jacqueline Bouvier Kennedy Onassis, le sue tre anime, le sue tre vite.
Non si dimentichi mai che una volta, per un breve, luminoso istante, ci fu un luogo chiamato Camelot.
L’articolo è stato pubblicato sulla testata Vanilla Magazine