di Daniela Musini
«Ordino che i miei funerali siano modestissimi, senza canti e senza suoni. Esprimo il vivo desiderio di essere sepolto a Milano con mia moglie Giuseppina nella Casa di Riposo per Musicisti da me fondata»: così aveva scritto Giuseppe Verdi prima di morire e così fu.
Il Maestro si spense a 88 anni in una camera del Grand Hotel et de Milan del capoluogo lombardo nella notte del 27 Gennaio 1901; nei giorni precedenti, le vie adiacenti l’albergo erano state lastricate di paglia per attutire il rumore delle carrozze e lo scalpiccio dei cavalli e non disturbare così il suo riposo che si avviava a diventare eterno.
All’alba del 30 Gennaio, tra due ali di folla, in un silenzio composto e mesto, un modestissimo carro funebre trasportò la sua salma al Cimitero Monumentale di Milano per essere tumulata in una tomba provvisoria; un mese dopo, in una cerimonia ufficiale e sontuosa in cui Toscanini diresse il “Va pensiero” con un coro di 900 cantanti, le salme di Verdi e della sua compagna di una vita, Giuseppina Strepponi, furono tumulate presso la Casa di Riposo per Musicisti in una cappella dalla volta azzurra di lapislazzuli per farle riposare l’uno accanto all’altra oltre la vita.
Storia d’amore bella, profonda e complessa quella tra Giuseppe Verdi e Clelia Maria Josepha Strepponi, meglio conosciuta come Giuseppina, complessa come può esserla tra due personalità indomite, indipendenti e volitive come loro erano.
Si conobbero nel 1839, iniziarono ad amarsi nel 1842, si sposarono vent’anni dopo e stettero insieme fino alla fine: cinquantacinque anni d’amore e di sodalizio artistico fra due anime belle votate entrambe alla Dea Musica.
Giuseppina nacque a Lodi l’8 settembre 1815 primogenita di cinque figli di Rosa Cornalba e di Feliciano, compositore ed organista al Duomo di Monza che la avviò allo studio della musica e del pianoforte.
Ottiene un primo successo come soprano a diciannove nell’“Elisir d’Amore” di Donizetti, ma la vera consacrazione le giunge l’anno seguente nell’opera “Matilde di Shabran” di Rossini.
È allora che incontra l’impresario Bartolomeo Merelli che la prende sotto la sua ala protettrice e la proietta verso il grande successo soprattutto nel repertorio del più romantico dei compositori italiani: Vincenzo Bellini.
Giuseppina si fa strada nel mondo operistico del tempo, muovendosi con disinvoltura fra Teatri, pubbliche relazioni, conoscenze di personalità influenti: è una ragazza volitiva e disinibita, chiacchierata per le sue svariate relazioni amorose e per tre figli, Adelina, Camillo e Giuseppina Fausta avuti da padri diversi e a cui dà il proprio cognome, ma a cui lei, sempre in un perenne altrove, non può badare. Sono anni infatti di intensa attività professionale, che la vedono esibirsi nei più importanti teatri italiani.
Verdi intanto in quegli anni inseguiva il successo. Era nato a Roncole di Busseto in provincia di Parma due anni prima di Giuseppina e fin da piccolo aveva mostrato un talento musicale fuori del comune, ma i suoi genitori, modesti contadini della Bassa, più che regalargli una spinetta su cui esercitarsi, non possono.
Ci pensò a farlo proseguire seriamente negli studi un commerciante in quel di Busseto, dilettante di musica ma grande intenditore e di animo magnanimo, il quale, avendo intuito le formidabili doti di quel ragazzo, lo prese in casa, permettendogli di frequentare la rinomata Scuola di Musica bussetana diretta dal maestro Ferdinando Provesi.
Iniziò così la carriera del musicista italiano più amato al mondo: compositore di brani per la banda del paese e insegnante privato di canto e di pianoforte.
Sua allieva prediletta e diligentissima è la dolce Margherita, figlia del suo mentore Barezzi, con cui comincia ad intrecciare arabeschi melodici e sguardi d’amore: si sposano e mettono al mondo due bimbi, Virginia Maria e Icilio Romano che un fato crudele come pochi strapperà alla vita piccolissimi uno dopo l’altro, lasciando inebetiti dal dolore i genitori.
Giuseppe e Giuseppina si conoscono in occasione dell’allestimento, alla Scala di Milano, della prima opera lirica del compositore, “Oberto conte di San Bonifacio”, nel novembre 1839.
Nessuno dei due però comprende da subito che quell’incontro avrebbe scompaginato un giorno non lontano la loro vita e i loro sensi: Giuseppina è ancora legata, seppure in una relazione dal diagramma accidentato, al suo impresario, e Verdi è troppo sconvolto dalla perdita dei suoi due piccoli e affranto per la grave malattia, encefalite, che ha colpito sua moglie Margherita e che non le lascia scampo. Muore anche lei, lasciando il compositore preda di una disperazione grifagna che gli fa decidere di abbandonare persino la Musica e la composizione.
Per Giuseppina intanto sono anni di intensissima attività, ma la voce però non regge a questo super lavoro, spesso ha dei cedimenti, è affaticata: i risultati sono al di sotto delle aspettative o addirittura deludenti. È stanca, a volte si lascia andare ad ad uno sconforto accidioso.
Anche Verdi in quel periodo è in un gorgo nero, chiuso in un cupo e solitario dolore e a nulla valgono il conforto e la vicinanza delle persone a lui fare.
Ma un giorno avviene un qualcosa che cambierà la vita a lui e a Giuseppina stessa: il poeta Temistocle Solera lo va a trovare in quella soffitta in via dei Servi a Milano dove il Maestro abitava.
Cerca di consolarlo e di incoraggiarlo a continuare a dispiegare sullo spartito il suo luminoso talento, ma Verdi non lo ascolta neppure, la testa fra le mani, seduto accanto al camino. Temistocle gli poggia sul tavolo il libretto del “Nabucco”.
Verdi esce, di notte, in una Milano deserta, con in tasca il libretto lasciatogli dall’amico e lui stesso, tempo dopo racconterà cosa accadde dopo: «Strada facendo mi sentivo indosso una specie di malessere indefinibile, una tristezza somma, un’ambascia che mi gonfia il cuore. Rincasai e, con un gesto quasi violento, gittai il manoscritto sul tavolo. Il fascicolo cadendo sul tavolo stesso si era aperto; senza saper come, i miei occhi fissano la pagina che stava innanzi a me, e mi si affaccia questo verso Va, pensiero, sull’ali dorate.»
Sarà questo il coro più celebre del melodramma italiano, che divenne fin da subito l’inno del Risorgimento ed emblema dell’Italia patriottica ottocentesca.
Il debutto del 9 marzo 1842 alla Scala fu un trionfo: Giuseppina ricopre il ruolo principale di Abigaille e stavolta tra Giuseppe e Giuseppina, che avevano lavorato fianco a fianco per ore e ore durante le prove, si era insinuato dolce e discreto un sentimento che andava ben al di là della stima e l’ammirazione reciproche.
Verdi è un bell’uomo, vigoroso, virile e ha un brutto carattere: iracondo, autoritario, ruvido.
Giuseppina è colta, emancipata, determinata e ha, al contrario, un bel carattere: paziente, comprensiva, amorevole.
Se relazione ci fu già in quel periodo per quanto vibrante e accesa, fu condotta con estrema discrezione: lui era ancora provato dai lutti devastanti che l’avevano colpito nei tre anni precedenti e lei era donna dalla vita sentimentale irrequieta e sofferta.
Entrambi inoltre conducono ritmi lavorativi quasi convulsi: Verdi dopo il successo elettrizzante del “Nabucco” ritorna a comporre con vigoria ed entusiasmo e lei lavora forsennatamente spesso con risultati insoddisfacenti tanto da decidere di abbandonare definitivamente le scene e trasferirsi a Parigi come insegnante di canto. Qui incontra di nuovo Verdi che si trovava nella Ville Lumière per redigere il rifacimento della sua opera “I Lombardi alla prima crociata” e ricominciano a frequentarci di nuovo, stavolta assiduamente: da quel momento diventeranno inseparabili.
«Innamorato appassionatamente. Innamorata perdutamente» annota lei nel diario.
Giuseppina da quel nuovo incontro a Parigi gli sarà per sempre accanto con devozione e amore, diventerà la sua saggia amica, paziente collaboratrice, preziosa consigliera, ma soprattutto amatissima compagna di vita.
Lo appellava Mago, lui Peppina, e tanto lui era orso e ispido, tanto lei socievole e arguta.
Solo lei era capace di mitigare le intemperanze caratteriali e certe ubbìe pervicaci di lui, riuscendo più di ogni altro essere umano ad ammansirlo e a farlo sorridere, solo lei riusciva ad ammortizzarne la veemenza, le impulsive collere, le crisi di inattività e di “letargo” creativo che coglievano anche uno spirito fervido e creativo come Verdi.
Ma quando nel settembre del 1849 la coppia si trasferì a Palazzo Dordoni a Busseto, i cittadini non si peritarono di mostrare disappunto: troppo vivo era il ricordo della dolce Margherita Barezzi e troppo burrascoso il passato sentimentale ed erotico della nuova compagna del Maestro.
Con grande amarezza e sconforto, Giuseppina vedeva le beghine di paese e i moraleggiatori voltare la testa al suo passaggio o confabulare sghignazzando o peggio rivolgere al suo indirizzo epiteti acidi.
Quando i concittadini arrivarono addirittura a gettare pietre alle finestre della casa dove la coppia risiedeva.Verdi era uno che le cose se le segnava al dito. Non dimenticava né perdonava, anche a distanza di tempo.
Se ne accorsero i suoi concittadini quando quasi vent’anni dopo provvidero all’inaugurazione del restaurato Teatro intitolato per l’occasione proprio al cigno di Busseto, il loro figlio più illustre.
Tutto era pronto in quell’assolato 15 agosto 1868: sarebbero andate in scena due opere verdiane, “Rigoletto” e “Il ballo in maschera”, gli uomini elegantissimi in abito scuro e cravatta verde e tutte le donne abbigliate con smeraldini abiti di raso e di seta (il colore era stato scelto come omaggio al cognome del Maestro) aspettavano trepidanti Verdi e Signora, e il palco n 10 (come il suo ottobrino giorno di nascita) a lui riservato era stato inondato di fiori.
Ma lui e Giuseppina non si presentarono.
La sua assenza fu uno schiaffo morale bruciante per i bussetani, così come lo era stata tanti anni prima, nel 1851, la decisione di Verdi di andare ad abitare fuori la cittadina parmense, a Villa Sant’Agata, ad un tiro di schioppo sì, ma nel piacentino comune di Villanova sull’Arda.
Qui, in quella enorme tenuta di 107 ettari, nella quiete silente della Natura, compose una ghirlanda di capolavori immortali: la magnifica trilogia popolare (“Rigoletto”, Il trovatore” e “La traviata”), “Un ballo in maschera”, La forza del destino”, Don Carlo”, “Aida”, “Otello”, “Falstaff”, il “Requiem”.
Incastonato in un parco che rivela sorprese e meraviglie, era (ed è ancora) uno scrigno di bellezze naturali, di piante rigogliose e curiose, esotiche ed imponenti, statue e arbusti rari, un vero angolo di Paradiso: pioppi giganti come granatieri, salici piangenti e scarmigliati, siepi di dalie e di rose, l’esedra delle magnolie, la grotta artificiale, una gigantesca sequoia, alcuni banani, 12 piante di anemoni, 6 Pini Silani, 12 allori del Portogallo, decine e decine di azalee, profumatissimi gelsomini e altre odorose meraviglie.
Verdi e Giuseppina l’avevano arricchito piano piano, soprattutto lui che, oltre ad essere il Genio indiscusso della Musica, era un botanico sopraffino, un agricoltore competente e pignolo, un valido architetto e vinaiolo esperto: s’alzava all’alba, prendeva il calessino percorreva lo splendido viale composto da ben 120 platani fino ad arrivare ai campi; accanto a sé, ritto in piedi a cassetta, un superbo gallo cui era affezionatissimo.
Lo si vedeva spesso, solitario e pensoso, percorrere a passi lenti le brume autunnali, avvoltolato nel suo tabarro, con il cappello floscio dei contadini della bassa a larghe tese sotto cui balenava il suo sguardo azzurrissimo.
Giuseppina lo attendeva a casa e spesso si recavano insieme al laghetto artificiale che si trovava al centro del parco che rischiò un giorno di divenire la loro tomba.
Accadde che mentre Giuseppina, aiutata da Verdi che le teneva la mano, si apprestava a bordo lago a scendere dalla barchetta, questa si capovolse ed entrambi caddero in acqua e andarono a fondo. Le ampie vesti di Giuseppina si gonfiarono pericolosamente d’acqua intralciandone i movimenti, mentre la barca capovolta s’andava trasformando in un vero e proprio coperchio sepolcrale. Verdi allora, con una risoluta spinta del braccio, spostò l’imbarcazione dal loro capo e insieme, annaspando, risalirono in superficie.
Bagnati fradici e piuttosto sconvolti, raggiunsero abbracciati la dimora. Solo allora, rifocillati e con gli abiti asciutti, si abbandonarono ad una grassa risata di fronte al camino e con in mano un bel bicchiere di lambrusco. Della cantina di casa Verdi, ça va sans dire!
Quella dimora tranquilla era arredata con somma eleganza: una biblioteca fornitissima, mobili intarsiati, stampe antiche, quadri dei maestri dell’Ottocento, statue e stoffe damascate color rubino, cristalli di Boemia e ceramiche preziose, tappeti persiani e magnifici argenti e poi tanti ricordi comprati nei loro viaggi, come le 100 posate acquistate a Parigi su ciascuna delle quali era incisa elegantemente una V che sormonta due G (Giuseppe e Giuseppina) amorevolmente intrecciate, o il samovar portato dalla Russia o il sontuoso servizio da scrittorio in malachite di uno smagliante color verde che fu regalato loro dallo Zar Alessandro III in occasione della prima de “La forza del destino” a San Pietroburgo nel 1862.
Erano una coppia affiatata e riservata, anzi riservatissima: persino il matrimonio era stato celebrato in completa intimità, lontano dal chiasso e dalla ribalta mediatica, in una piccola chiesetta di Collonges-sous-Salève in Savoia, con il cocchiere e il campanaro come testimoni, il 29 agosto 1859..
Dal 1872 la coppia iniziò a soggiornare saltuariamente anche nella suite 105 (in cui era stato posto per lui un pianoforte a coda) di quello che allora era “Albergo di Milano” e che poi diventerà il lussuoso Grand Hotel et de Milan, residenza di passaggio preferita da teste coronate, miliardari, artisti e personaggi famosi.
Il Maestro amava quella donna mingherlina e intelligente, sensibile e tollerante, anche se non le risparmiò amarezze e gelosie, sia per alcune passioncelle fuggevoli, sia quando nelle loro esistenze entrò come una folata di vento dell’Est Teresina Stolzovà, conosciuta con il nome d’arte di Teresa Stoltz, giovane, statuaria e carnale soprano boemo dalle trascendentali note di petto, che trionfò nel “Don Carlo” e soprattutto nell’”Aida”.
Sbigottita e sgomenta, scrive sul suo diario: «È innamorato di lei! E lei lo blandisce, lo affscina, lo circuisce, me lo ha tolto!»
Giuseppina parla chiaramente di «infame tresca»; molla il vegliardo innamorato e si rifugia a Cremona da sua sorella.
A Sant’Agata Verdi, solo e depresso, comprende che senza la sua Peppina è un uomo perso e va a Cremona, con il cappello in mano, a chiederle scusa e a riprendersela.
Nel 1897 Giuseppina si ammala gravemente per polmonite e a Novembre, in un autunno sgarbato e uggioso, le sue condizioni peggiorano. I medici interpellati scuotono la testa, Verdi è ammutolito per la pena.
Nel testamento Giuseppina destina una somma considerevole a cinquanta famiglie indigenti dei dintorni e nomina erede universale il suo amato marito, testamento che si conclude con un pensiero dolcissimo riservato al suo amato sposo: «Ora addio, mio Verdi. Come fummo uniti in vita, ricongiunga Iddio i nostri spiriti in Cielo.»
Il 14 novembre alle ore 16, mentre la luce del giorno abdica al crepuscolo, Verdi esce nel loro giardino, raccoglie una tardiva violetta e la porge a Giuseppina.
«Peppina, senti che profumo!» le sussurra lui trattenendo a stento le lacrime.
Lei gli prende la mano e se la poggia sul cuore: «Grazie Mago, ma non sento nulla» mormora lei con un fil di voce.
Furono le sue ultime parole.