Evita Perón: la donna più Potente e Amata dell’Argentina del ‘900

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Un “coriandolo” di Daniela Musini, pubblicato per la testata Vanilla Magazine” sulla carismatica Evita Peron, donna amatissima e controversa, complessa e straordinaria.

 

Evita Perón: la donna più Potente e Amata dell’Argentina del ‘900

La luce. Era questo che incantava guardandola: la luce evanescente e carismatica che il suo volto riverberava. Bionda ed elegante, sorriso dolce e sguardo deciso:

Così era Evita Perón, la donna più amata, potente e rimpianta nell’Argentina del Novecento

Eva Maria (questo il suo nome all’anagrafe) nacque il 7 maggio 1919 a La Unión, una tenuta agricola a un tiro di schioppo dal paese di Los Toldos, in provincia di Buenos Aires, tenuta che faceva parte delle proprietà terriere di Juan Duarte, di cui sua madre, Juana Ibarguren, era al servizio come cuoca.

Lui era sposato e aveva una famiglia regolare in un’altra località distante un centinaio di chilometri, Chivilcoy, ma le carni brune e gli occhi incendiari di Juana gli scatenarono una passione rapace. Ci sono amori nati per volare in cieli limpidi e amori nati per rimanere colpevoli e clandestini. Quello fra padrone e cuoca fu uno di questi.

Juana partorì cinque figli illegittimi fra i pettegolezzi e i mormorii della gente e il malevolo astio della famiglia regolare di Juan, il quale poco dopo la nascita dell’ultimogenita Eva Maria abbandonò amante e prole e se ne tornò a vivere sotto il tetto coniugale di Chivilcoy.

Juana, disperata ma non vinta, prese i bambini e i pochi bagagli che possedeva e lasciò la tenuta, trasferendosi a Los Toldos dove sperimentarono da subito il cociore asprigno della discriminazione: gli abitanti additavano lei come una mala mujer, una “malafemmena”, e ai bambini del paese era addirittura vietato giocare con i suoi bastardos.

Un giorno la piccola Eva, chiamata affettuosamente Evita, entrando in classe vide scritto sulla lavagna a caratteri cubitali: «No eres Duarte, eres Ibarguren»: non sei una Duarte, sei una Ibarguren (il cognome della madre).

Quella umiliazione fu per lei una lama di coltello nello stomaco e mentre i suoi compagni continuavano a sghignazzare con la (in)consapevole crudeltà della loro età, lei lentamente, rigida e altera, lo sguardo fisso davanti a sé senza una lacrima, la bocca serrata diventata un taglio, andò a sedersi al suo banco.

Al suono della campanella corse a perdifiato verso casa mentre lacrime copiose e rabbiose le rigavano il viso; poi si fermò sotto un albero e si lasciò cadere, raggomitolata sull’erba con le mani a pugno dinanzi al viso. Fu quel giorno che decise il suo riscatto:  diventerò qualcuno e gliela farò pagare a tutti!

Ma neppure lei, minuta ragazzina bruna dal carattere di ferro, avrebbe mai immaginato che vent’anni dopo sarebbe diventata addirittura la Primera Dama del suo Paese, la più idolatrata, la più rimpianta.

Nel gennaio 1926 intanto suo padre Juan Duarte muore in un incidente d’auto, e allora Juana e i suoi cinque figli si recano vestiti a lutto a Chivilcoy per dargli l’ultimo saluto, ma subiscono un ulteriore affronto: la vedova e i figli legittimi si rifiutano di accoglierli in casa e solo dopo ore in cui vengono tenuti fuori sul patio acconsentono a farli entrare.

Juana e i suoi bambini, Blanca, Elisa, Juan, Erminda ed Evita sfilano davanti alla bara dell’uomo sotto gli occhi ostili di parenti e amici e per quest’ultima, bambina di sette anni, sensibile e orgogliosa, quella disapprovazione che legge sui volti di tutti gli astanti, è un marchio di infamia che la ferisce in modo indelebile: è da quel preciso momento che si insinua nel suo animo, e non l’abbandonerà mai, una ribellione sorda e tenace contro tutte le forme d’ingiustizia e di discriminazione e una repulsione pervicace verso l’ipocrisia dei benpensanti.

Juana intanto, vedova non riconosciuta e donna sola con tante bocche da sfamare, decide di trasferirsi con i suoi figli nella bella cittadina di Junin, e qui, china tutto il giorno sulla sua macchina da cucire Singer, diventa una sarta apprezzata dalle eleganti signore della borghesia.

A Junin Evita, che ormai ha 15 anni, osserva con ammirazione e un pizzico di invidia le donne dell’alta borghesia passeggiare la domenica sotto braccio ai loro mariti azzimati, sfoggiando gioielli e pellicce e ne rimane incantata.

Lei non è come le altre sorelle che sognano un futuro tranquillo e modesto: lei è sì romantica (e lo dimostrerà amando di un amore appassionato e assoluto l’uomo che diventerà suo marito), ma è soprattutto volitiva e determinata, ambiziosa e risoluta.

Diventare ricca e famosa è il suo obiettivo, ma non l’unico: vuole entrare a far parte del mondo lussuoso e luccicoso del Cinema.

Non sa che il Fato ha deciso per lei un futuro ancora più glorioso e tragico

Intanto s’innamora di un giovane sindacalista anarchico, Damiàn Gómez e qui nel suo percorso di vita compare il primo punto oscuro: una gravidanza e un successivo aborto non spontaneo da lei sempre negati, ma che peseranno come un macigno nella sua vita futura, tanto che lei stessa in una lettera a Perón suo marito scriverà accorata: ti giuro che è un’infamia. Il passato mi appartiene, ma devi saperlo, è tutta un’infame falsità

Se davvero lei fosse rimasta incinta e poi avesse abortito a soli 15 anni o se ciò fosse solo un pettegolezzo infamante inventato a bella posta dai suoi detrattori, non è certo; quello che è certo che il suo fidanzato Damiàn venne accusato di attività sovversive, tradotto in carcere dove morì giovanissimo in circostanze non chiare.

Eva soffre, ma la levità da libellula della sua verde età le fa dimenticare presto il suo primo amore perché ha conosciuto nel frattempo il celebre cantante di tango Augustin Magaldi, al quale rivela il fuoco sacro che cova dentro di sé per il palcoscenico, e lui che è una vecchia volpe l’accoglie a braccia aperte nel suo letto.

Evita il 2 gennaio 1935 si trasferisce a Buenos Aires per tentare la fortuna: comincia a muovere i primi passi a Teatro e a frequentare il mondo dello spettacolo.

Intanto il cambiamento fisico è vistoso: ha tinto i capelli di biondo che accentuano la sua pelle di latte e per contrasto evidenziano i suoi occhi neri e vivaci, mentre da ragazzina bruna e fisicamente poco appariscente si è trasformata in una ragazza piena di fascino: pur non essendo una bellezza vistosa (è minuta e piccolina) si fa notare per i modi accattivanti, il glamour innato, e la grinta che traspare da ogni suo gesto.

Ottiene una prima particina in un film, La seňora de Pérez cui seguirono altre comparsate fino a che non le si presenta una ghiotta occasione: recitare in radio in quei radiodrammi ricchi di pathos e colpi di scena che ogni sera tenevano avvinghiati migliaia di persone.

La sua voce calda e carezzevole, le indubbie doti interpretative, la sua naturale capacità di immedesimarsi nelle vicende appassionate delle figure femminili che interpreta, conquistano un pubblico sempre più vasto e lei diventa una delle attrici radiofoniche più apprezzate e seguite del Paese, raggiungendo ben presto fama e benessere economico.

 

“Nella vita di ogni donna c’è almeno un giorno meraviglioso e il mio è quello in cui ho incontrato Perón» scriverà rapita nella sua autobiografia La razon de mi vida”.

E l’incontro con l’uomo che diventerà la ragione della sua vita avviene il 22 gennaio 1944, quando partecipa insieme ad altri personaggi dello spettacolo e della politica ad un festival organizzato per raccogliere fondi per la cittadina di San Juan, martoriata da un terremoto disastroso.

Il colonnello Juan Domingo Perón era uno dei capi del Grupo de Oficiales Unidos, il GOU, una loggia massonica che l’anno precedente aveva provocato con un colpo di Stato militare la caduta dell’allora presidente Ramon Castillo a favore del Generale Edelmiro Farrel, e da questi ricompensato con le cariche di segretario del Lavoro e degli Affari sociali, diventando di fatto uno degli uomini più potenti e influenti dell’Argentina.

Lei ha 24 anni e un passato chiacchierato, lui 48 ed è vedovo: i due si guardano e Cupido scocca una freccia infuocata. Alla fine della serata escono insieme sottobraccio e per lei inizia la leggenda.

Evita s’innamora in modo impetuoso di quest’uomo alto, possente, fascinoso e dal sorriso contagioso, la cui avvenenza era il frutto di un meticciato di varie razze: i suoi bisnonni paterni erano l’uno, Tomaso, di origini sardo-piemontese e l’altra, Ana Hughes McKenzie scozzese, sua nonna Dominga un’uruguayana figlia di genitori baschi, suo padre argentino ma con sangue multietnico e sua madre Juana Sosa Toledo appartenente alla tribù di nativi Tehuelche della Patagonia, denominati i Giganti di Patagonia per l’alta statura che li caratterizzava.

Juan Perón, che somigliava molto alla madre, era scuro di capelli e di carnagione e imponente proprio come un Tehuelche: “Ho parte di sangue india: zigomi pronunciati, capelli abbondanti” dirà in un’intervista “posseggo una fisionomia India e mi sento orgoglioso di ciò, perché credo che la cosa migliore del mondo risieda negli umili”.

La sua scalata nella gerarchia che detiene il potere in Argentina procede spedita, e nel 1945 è nel contempo ministro della guerra, segretario del lavoro e vicepresidente: troppo per i suoi nemici all’interno delle stesse forze armate che il 9 ottobre lo costringono alle dimissioni e lo arrestano.

Dal carcere dove è rinchiuso scrive a Evita parole d’amore e di rimpianto: “Tesoro mio adorato, solo stando lontani da chi amiamo possiamo misurare il nostro affetto. Da quando ti ho lasciato, con un dolore così grande che non puoi immaginare, non sono più riuscito a calmare il mio cuore triste. Adesso so quanto ti amo e che non posso vivere senza di te. La mia immensa solitudine è piena del tuo ricordo”.

Passano solo pochi giorni e gli operai reagiscono in modo sorprendente e risoluto:

In migliaia, una vera fiumana, si riversano per le strade chiedendo a gran voce la liberazione di Perón

Fa caldo quel giorno di ottobre (nell’emisfero australe in quel mese è primavera), la calca è asfissiante e allora i manifestanti, con un gesto che passerà alla Storia, si tolgono la camicia mentre scandiscono rabbiosi Perón libre, Perón libre: sono i descamisados (i senza camicia) e a galvanizzarli è proprio Evita, nel frattempo diventata una fervente attivista.

Buenos Aires è paralizzata, gli animi dei manifestanti surriscaldati, i vertici al potere spaventati: Perón viene liberato a furor di popolo e il 22 ottobre 1945 sposa la sua compagna in un tripudio di consenso popolare.

 

Lei antepone il suo secondo nome Maria a quello di Eva e da allora in poi si firmerà Maria Eva Duarte de Perón, ma per il popolo argentino lei è semplicemente Evita.

È proprio a loro e alle migliaia di cabecitas negras, le “testoline nere” ovvero i contadini e i poveri dalla pelle scura delle zone interne del Paese che il processo di urbanizzazione aveva fatto confluire a Buenos Aires, che lei si rivolge nei suoi fiammeggianti comizi in cui sempre di più appare come trascinatrice di folle e incantatrice di cuori.

Sa come incendiare gli animi, sa modulare e impostare la voce (era stata pur sempre una delle più brave attrici di radiodramma), ma soprattutto sa parlare al cuore della gente: è sincera e ardente, appassionata e generosa e non dimentica le proprie origini, anche se gira con truccatore e parrucchiere al seguito, indossa abiti sontuosi e costosi (di Dior soprattutto), cappellini elaboratissimi e gioielli da favola (alla sua morte in cassaforte gliene ritrovarono per un valore di sei milioni di pesos).

“Sono una di voi. So cos’è la fame” ripete spesso in pubblico, e migliorare la condizione di poveri e diseredati, difendere i loro diritti, legittimare i figli nati fuori dal matrimonio (come lei) e dar voce alle prerogative delle donne sarà sempre il suo obiettivo primario, la sua missione fino alla fine.

Il 24 febbraio 1946, pochi mesi dopo la sua liberazione, Juan Domingo Perón diventa Presidente di quel grande Paese e così lei, l’ex ragazzina illegittima e umiliata dai compagni di classe, è la nuova Primera Dama, e in quella veste svolgerà con passione e abnegazione il ruolo che più le sta a cuore: quello di abanderada de los humildes (portavoce degli umili).

È lei la vera paladina del perónismo, il sincretico movimento politico che mira a tracciare una terza via tra capitalismo e comunismo, coniugando populismo e socialismo, nazionalismo e statalismo, la seguace più ardente e convinta di suo marito, oltre che suo attivissimo braccio destro.

Perón, già, Perón. Figura assai controversa e discussa; suscita consenso entusiasta fra i suoi seguaci, favorendo i lavoratori e le classi meno abbienti, assicurando loro salari garantiti, il diritto allo sciopero, introducendo la tredicesima, spingendo il Paese verso l’alfabetizzazione delle classi più povere e caldeggiando l’industrializzazione, sostenendo il distacco dell’Argentina dall’influenza degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, nonché la nazionalizzazione della Banca centrale e dei trasporti.

Per i suoi tanti avversari politici invece è solo un demagogo e populista, un dittatore che mette a tacere le opposizioni di sinistra con metodi repressivi e, cosa che non gli sarà mai perdonata, offre asilo ai tanti gerarchi nazisti fuggiti dalla Germania dopo la seconda guerra mondiale.

Evita è più amata di lui; lei lo sa e non si risparmia: riceve in media dodicimila lettere al giorno (e a moltissimi risponde personalmente), lavora nel suo ufficio fino a notte fonda, gira fra i poveri e i baraccati senza sosta non lesinando parole di conforto e abbracci, portando speranza e aiuti economici (nel corso della sua breve esistenza si parlò di 50 milioni di pesos elargiti).

Fa costruire scuole, 21 ospedali, case di riposo, quattromila alloggi per i diseredati (che costituiranno la cosiddetta Evita city), attrezza colonie estive per i bambini e, memore di sua mamma che era riuscita a mantenere una famiglia di sei persone grazie ad una macchina da cucire, ne fa distribuire a milioni tra le famiglie.

 

Il 9 settembre 1947 grazie a lei e alle sue lotte, il Parlamento approva il disegno di legge che consente il diritto di voto alle donne che gliene saranno sempre grate e diventeranno, anche per questo, le sue più ferventi sostenitrici che l’adoreranno imitando il suo chignon basso e la sua sfumatura particolare di biondo, gli impeccabili tailleur e gli chemisier à pois, le acconciature floreali tra i capelli e le scarpe bianche dal tacco alto (con cui lei cercava di compensare la piccola statura).

Ogni sua uscita pubblica si trasformava in un evento; quando la domenica mattina si affacciava dal balcone della Casa Rosada per parlare al popolo, in migliaia accorrevano da tutte le parti del Paese per ascoltarla: lei si rivolgeva loro con discorsi traboccanti ardore e passione non scevri però da retorica enfasi e da una certa platealità, come i suoi avversari politici sarcasticamente sottolineavano.

L’accusavano fra l’altro di aver alterato i propri dati anagrafici per sottacere la propria origine illegittima, di nascondere parecchi scheletri nell’armadio e di usare ipocritamente le sue munifiche elargizioni per tenere buono e asservito il popolo.

“Coloro che mi attaccavano” dichiarerà lei in un’intervista “non potevano perdonare ad una giovane donna di aver avuto così tanto successo”.

Sue acerrime nemiche erano anche le dame dell’aristocrazia e delle classi sociali più elevate: per loro Evita, anzi, Eva Ibarguren, come si ostinano a chiamarla, è solo una modesta attrice che aveva fatto fortuna, una scaltra parvenue che aveva saputo far breccia nel cuore dell’uomo più appetito e potente d’Argentina, una con un passato “disinvolto” e spregiudicato.

Per questo la prestigiosa e snob Sociedad de beneficencia le rifiuta il ruolo di presidentessa che per prassi era riservata da sempre alla moglie del Presidente in carica.

Lei, che è di natura magnanima ma anche impulsiva, dura e autoritaria, se la segna al dito. Alle “dame” dirà sprezzante: “Andate a riposare nelle vostre fazende; il popolo non ha più bisogno della vostra elemosina: il popolo adesso ha me!” Fa chiudere la Sociedad con atto governativo per istituire al suo posto la Fundacion Maria Eva Duarte de Perón.

Dato il carisma irresistibile e la popolarità in continua ascesa, suo marito Perón nel 1947 la invia in Europa per quello che sarà ribattezzato il Rainbow Tour.

In molti Stati la Primera Dama d’Argentina viene accolta come una Regina: alla sua apparizione alla Scala di Milano sul palco reale è salutata con una ovazione, Papa Pio XII la riceve con tutti gli onori, così come il Generalissimo Francisco Franco, dittatore di Spagna.

Lei, elegantissima e suadente, dice ai giornalisti: “Sono il ponte che collega Perón con il popolo. Attraversatemi”.

Giorgio VI però, memore dei sentimenti anti britannici del marito, si rifiuta di riceverla, e in Svizzera e in Italia fronde di nemici del regime peronista l’attaccano pesantemente con insulti e lancio di uova e pomodori, ma lei sorride imperturbabile e procede contornata dalla sua aura di donna vincente e potente.

Quando rientra in Argentina, ci sono mezzo milione di persone ad attenderla e viene steso un tappeto rosso su cui lei incede raggiante.

Ma il suo successo personale, il carisma irresistibile ed il consenso quasi fanatico che riscuote fra la popolazione, il suo protagonismo e il potere conseguito in quanto donna, infastidiscono molti esponenti del governo (tra cui qualcuno insinua ci sia anche suo marito) che cominciano a guardarla con sospetto e riluttanza.

Il futuro di questa donna straordinaria però non sarà tratteggiato dal volere dell’oligarchia politica, ma da un destino personale che s’ammanta all’improvviso dei colori cupi della tragedia.

È il 1950 quando comincia ad accusare forti dolori allo stomaco che lei volutamente trascura: “i doveri verso il mio popolo sono più pressanti della mia salute” ripete a tutti, ma la sofferenza si fa di giorno in giorno più rapace e grifagna.

Il verdetto è crudele: cancro all’utero

Evita rifiuta l’intervento chirurgico perché suo marito nel febbraio 1951 è di nuovo in corsa per le elezioni che si sarebbero tenute a Novembre e lei vuole essere al suo fianco, deve essere al suo fianco “per il bene dell’Argentina” ribadisce con forza.

Non si risparmia neanche questa volta: infaticabile, prodiga, combattiva, sostiene il marito ed è sempre accanto a lui nei comizi e nelle arringhe, sempre elegante e senza un capello fuori posto anche se i dolori diventano sempre più atroci e il pallore e la magrezza si fanno sempre più inquietanti ogni giorno che passa.

Il popolo a gran voce chiede che lei sia designata come futuro vicepresidente e ben 200 sindacalisti si recano da Perón stesso a perorare la causa. Lui nicchia perché il successo crescente della moglie, che lo ha superato in popolarità, rischia di metterlo in ombra e questo non può tollerarlo: perciò il 22 maggio, di fronte all’adunata di centinaia di migliaia di persone, sul balcone Evita appare defilata e a parlare è solo lui, Juan. Ma il popolo grida compatto: Evita vicepresidente! Evita vicepresidente!

L’imbarazzo e il disappunto da parte di Perón e dei vertici è palese: Evita, dopo aver consultato il marito, si avvicina al microfono e spiega che ha bisogno di tempo per riflettere e che darà la sua risposta a fine agosto.

Dal pubblico si leva un grido che monta come una marea: ahora Evita! Ahora! (adesso, Evita! Adesso!) Lei sorride flebilmente e rientra nell’ombra.

Il male se la mangia vorace in poco tempo. È da un letto d’ospedale che infila la scheda elettorale nell’urna: è emaciata, ma bellissima e combattiva come sempre.

L’11 novembre 1951 Perón vince con una maggioranza schiacciante e il corteo presidenziale si snoda per le strade di Buenos Aires: è un trionfo, un tripudio di gente, bandierine, petali di fiori e acclamazioni. Evita è in piedi accanto al suo Juan, luminosa e diafana: sorride serrando i denti perché i dolori nonostante la morfina sono implacabili ed è talmente debole che deve indossare un particolare busto di metallo che la sorregga durante la parata.

Il primo maggio 1952 appare in pubblico. Parla a fatica, la voce rotta dalla commozione.

In pochi s’accorgono che sta in piedi solo perché il suo Juan, scuro in volto, la sostiene da dietro. Quando termina il suo discorso s’accascia tra le sue braccia e piange. Sarà la sua ultima apparizione in pubblico.

Ma Perón era davvero addolorato?

 

C’è chi giura di no, e il confine tra realtà e mistificazione in questi casi si fa labile: molti raccontavano che lui era sempre accanto a lei in quel letto di sofferenza inaudita e che fosse straziato dal dolore; altri invece sussurravano a mezza bocca che in realtà il Presidente, provando una sorta di dolorosa repulsione per quel corpo ischeletrito, dormisse lontano e si rifiutasse addirittura di farle visita.

Ed è a questo punto della storia che s’innesta un evento sconcertante: nel 2005 il neurochirurgo ungherese George Udvarhelyi dichiara in un’intervista di aver fatto parte dell’equipe medica che nel 1952 aveva praticato una lobotomia a Evita senza il suo consenso. La decisione, così si racconta, sarebbe stata presa dallo stesso marito su pressioni del governo.

Se così effettivamente è stato, quali furono ragioni che avrebbero indotto Perón a farle praticare quell’intervento così devastante? Era stato per aiutarla a sopportare gli inenarrabili dolori che il tumore le provocava? O la ragione, più sconvolgente, risiede nella volontà di azzerare così il potere politico di Evita?

Lei invero negli ultimi mesi, forse perché preda di un destabilizzante turbamento psicologico a causa della malattia e consapevole della sua fine imminente, aveva sferrato attacchi virulenti contro i suoi avversari politici e i nemici interni al partito incitando i suoi fedelissimi ad abbandonarsi al sacro fuoco del fanatismo e persino ordinando l’acquisto di migliaia di pistole e mitragliatrici per armare i suoi descamisados e gli operai delle organizzazioni sindacali.

Perón e tutto l’establishment al potere erano di fatto imbarazzati e sconcertati dai suoi comportamenti.

Per questo la ragione che la lobotomia le fosse stata effettuata per ragioni politiche appare a molti come la più plausibile

Quali che fossero le motivazioni, quell’intervento fu per lei esiziale: smise praticamente di nutrirsi arrivando a pesare 37 chili e trascorse gli ultimi giorni in uno stato pressoché vegetativo.

Il 26 luglio 1952 alle 20,25 i commentatori e gli annunciatori di tutti i canali radio dell’Argentina si fermano per annunciare, con la voce rotta dall’emozione, che:  Eva Perón, capo spirituale della nazione, è entrata nell’immortalità

Era morta all’età di trentatré anni. Come “nostro Signore Gesù”, sottolinearono tutti.

Un lugubre pianto si levò allora dall’intero Paese. Per quindici giorni due milioni di persone ammutolite dal dolore sfilarono davanti al suo feretro di vetro dove lei riposava imbalsamata: gli uomini con il capo chino, le donne soffocando i singhiozzi nei fazzoletti.

Don’t cry for me Argentina, ma tutta la Nazione piange e si dispera: piangevano i suoi descamisados, piangevano le donne per i cui diritti lei si era battuta come una leonessa, piangevano i giovani che avevano individuato in lei una guida autorevole e materna.

Quando il 19 settembre 1955 gli esponenti della Revolucion libertadora attuano un colpo di Stato e costringono Perón ad andare in esilio prima in Paraguay e poi in Spagna, per le spoglie di Evita inizia una sorta di calvario.

I golpisti vogliono cremarne il corpo per evitare che l’esposizione della salma perpetui la devozione del popolo nei suoi confronti, ma grazie anche al supporto del Vaticano, i peronisti riescono a far arrivare i resti mortali in Italia. Il 13 maggio 1957 Evita viene sepolta sotto il falso nome di Maria Maggi de Magistris nel cimitero di Musocco a Milano.

Solo nel 1976 le sue spoglie tornano finalmente a Buenos Aires dove riposano in una piccola tomba di marmo nera nel Cementerio de la Recoleta, il cimitero monumentale della città.

Sulla lapide lei, la Reina de los descamisados, aveva ordinato di incidere queste parole: Tornerò. E sarò milioni.

Il link all’articolo su Vanilla Magazine:

https://www.vanillamagazine.it/evita-peron-la-donna-piu-potente-e-amata-dell-argentina-del-900/