Che cos’hanno in comune Giacomo Casanova, gaudente e cosmopolita libertino del Settecento e Gabriele d’Annunzio, voluttuoso forgiatore di parole e di vite inimitabili della Belle Epoque (e oltre)?
Apparentemente nulla. No di certo le physique du rôle: alto, possente, sguardo imperioso e naso aquilino il primo, basso, mingherlino, sguardo carezzevole e fattezze femminee l’altro.
No di certo la concezione dell’Amore: legami frivoli, incipriati e leggeri (liaisons dangereuses sì, ma senza patemi) per il veneziano; passioni attossicanti dalle subitanee accensioni e dai repentini appagamenti il pescarese.
No di certo l’attività amatoria e andiamo a spiegare.
Giacomo ebbe “soltanto” 116 donne che amò con animo gentile e galante, senza coinvolgimenti spasmodici e senza crudeltà; nel pieno della maturità, per colpa di Marianna, bella, scaltra e depravata ninfetta, divenne impotente: «Fu in quel fatale settembre 1763 che cominciai a morire e che ho finito di vivere. Avevo appena 38 anni», scrisse sconsolato.
Gabriele poté vantare un carnet di 4000 donne: una “vendemmia della carne” da lui perpetrata fino alla morte.
In confronto l’innocuo Casanova è solo un meraviglioso cicisbeo in marsina e parrucca, che ama fornicare senza, però, la maniaca sconcezza di Sade, senza la vitrea lussuria di Valmont (quello delle “Liasons dangereuses” del torbido Choderlos de Laclos) tanto cari al Vate.
Lui pecca con allegria, leggiadria e spregiudicatezza tanto quanto l’altro lo fa con furore, passione e voluttà.
Entrambi vissero a Venezia, ma la “Serenissima” del Settecento era una città gaudente, scostumata e vitalissima; quella che amò l’Imaginifico era invece “la città molle e oppiacea” di Rilke, lo scenario allunato e segreto di “Morte a Venezia” di Thomas Mann, “il sesso caldo d’Europa” come griderà Apollinaire, ovvero decadente, languida, malata.
Ambedue sentirono il richiamo irresistibile di Parigi, sirena maliosa e ruffiana.
Ma quando vi arrivò Giacomo era il 1750 e il Veneziano, con raccapriccio, vede la folla assieparsi attorno al patibolo dove vengono giustiziati i condannati a morte con le tricotteuses in prima fila comodamente sedute a lavorare a maglia; quando vi giunse Gabriele era il 1911 e la Ville Lumière era diventata lo sfavillante crogiolo di Artisti, avventurieri, spie e cocottes, ma la fatua e meravigliosa Belle Epoque aveva iniziato la sua agonia inesorabile.
Eppure questi due irresistibili seduttori tanto diversi tra loro ebbero molti punti in comune: entrambi furono edonisti ed epicurei, spregiudicati e narcisisti, scintillanti teatranti e bugiardi inveterati, generosi ed egoisti, facondi conversatori e dalla Cultura enciclopedica.
Casanova moriva nel 1798 in un uggioso castello di Boemia, vegliardo irascibile e bisbetico; la sua Vita e i suoi amori si stagliano sulle tele di Boucher con quelle fanciulle carnose, rosee, imbottite di bambagia. Lui amò come poteva amare un picaro errabondo e scettico e fu amato sì, ma senza drammi. Nessuna si uccise per lui. Qualcuna lo dimenticò pure.
Non così per d’Annunzio: le sue amanti, sontuose e gemmate come le creature di Klimt furono tutte annientate da quella esperienza devastante e sublime che era vivere una passione con lui.
Il Vate terminerà la sua esistenza nel 1938, vecchio ma ancora preda di voglie morbose.
E per entrambi la leggenda continua…